La miccia che ha fatto esplodere l’attacco di Hamas, tanto per cambiare, è stata accesa dai delinquenti del Pentagono: tutto nasce dall’accordo con i Sauditi per riconoscere Israele

DAGOREPORT di dagospia.com

L’escalation di violenza e di morte in Israele e a Gaza sta preoccupando, e molto, il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden. Durante il vertice virtuale di due giorni fa tra “Sleepy Joe” e gli alleati Macron, Meloni, Scholz e Sunak, è emersa la chiara consapevolezza che ci si muove su un crinale pericolosissimo.

Ogni eccesso, da qualunque parte, potrebbe essere irreversibile e scatenare un effetto domino dalle conseguenze incontrollabili.

Come sia stato possibile arrivare a questa improvvisa esplosione di barbarie terroristica è oggetto di analisi e speculazioni.

Di certo, un grosso errore diplomatico, che ha pesato molto nel compromettere i tentativi di armonizzare le relazioni nella regione, fu commesso con la decisione di provare ad estendere gli Accordi di Abramo all’Arabia Saudita.

La mossa avrebbe dovuto normalizzare i rapporti diplomatici tra Riad e Tel Aviv, come già avvenuto per Emirati Arabi e Bahrain, sotto l’egida degli Stati Uniti.

Il peccato originale di quella trattativa fu non coinvolgere, al momento dell’apertura a Riad, anche i palestinesi, i quali si sono sentiti “venduti” e traditi dai “fratelli” sauditi per un piatto di lenticchie.

Una delusione che ha consolidato nei vertici di Hamas la convinzione di non poter più contare sul sostegno del regno di Bin Salman e di doversi guardare attorno in cerca di nuovi potenziali alleati. E così, il gruppo terrorista (di fede sunnita) ha sorvolato sulla distanza dottrinale che lo separa dall’Iran sciita per cercare il sostegno e il supporto logistico-tecnologico di Teheran.

Durante il percorso di avvicinamento tra sauditi e Israele, la Cina si era mossa in contrapposizione provando a riannodare i rapporti tra Iran e Arabia Saudita, prendendo in contropiede l’Occidente.

Biden, spiazzato, ha tentato quindi la strada di un appeasement con l’Iran, con la motivazione – che ora gli viene rinfacciata – che non si poteva “consegnare” Teheran a Cina e Russia.

Una mossa imprudente, culminata tre settimane fa con il dissequestro di 6 miliardi di beni iraniani, congelati dalle sanzioni, in cambio di cinque prigionieri statunitensi.

Biden, inoltre, sin da quando è arrivato alla Casa Bianca, ha minato alle basi gli storici rapporti tra Washington e Riad. Prima accusando Bin Salman dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi (rendendo noto il documento della Cia con le prove), poi cercando di ripristinare gli accordi sul nucleare iraniano, con l’effetto – come scrive Stefano Graziosi su Panorama – di “irritare contemporaneamente sia i sauditi sia gli israeliani. L’apertura improvvisa al regime khomeinista ha portato inevitabilmente a un rafforzamento politico e geopolitico di quest’ultimo.

[…] II rafforzamento dell’Iran ha quindi reso maggiormente baldanzosi i gruppi regionali che storicamente sono spalleggiati dall’Iran stesso: da Hamas a Hezbollah. Un elemento che ha quindi messo a rischio la sicurezza di Israele. Tutto questo, mentre Riad si è sempre più orientata verso l’orbita sino-russa”.

L’attacco palestinese a Israele è stato il colpo che ha fatto saltare la scacchiera della diplomazia: dopo quello che è successo, sono andati a ramengo sia i negoziati tra Arabia Saudita e Israele che quelli tra Riad e Teheran (era in calendario la firma di un’intesa, mediata dai cinesi, a gennaio 2024).

Ma come ha fatto Hamas a trovare la forza per un attacco di forza e portata mai vista contro Israele?

Come ipotizzato da più parti, il gruppo ha ricevuto sicuramente il supporto logistico dell’Iran che, insieme a India e Malesia, è uno dei paesi più avanzati a livello tecnologico militare.

Non a caso, il regime di Teheran ha fornito a Vladimir Putin i droni Shahed per la guerra in Ucraina. Ed è probabile che anche la Russia abbia avuto un ruolo: a Gaza sono stati “attenzionati” emissari di Mosca, che hanno fornito un supporto di intelligence agli squadroni di Hamas.

Difficile credere che i palestinesi, da soli, siano stati in grado di “bucare” la “barriera” iper-tecnologica che separa la Striscia da Israele, per cui servono competenze da specialisti cyber. “Skill” di cui notoriamente sono molto dotati i servizi russi.

L’incursione di Hamas è stata un bruttissimo colpo alla credibilità di Netanyahu e alla presunta superiorità tecnologica di Tel Aviv, che ha sempre rivendicato, con una certa tracotanza, la propria invincibilità grazie alle meraviglie dell’hi-tech. Una convinzione che i fatti del 7 ottobre hanno fatto venire meno.

Con il premier sono finiti nel mirino anche i servizi di sicurezza israeliani, in guerra tra loro da anni: da un lato lo Shin Bet, il servizio interno, accusato di non aver captato i numerosi segnali su cosa stesse preparando Hamas. Dall’altro il Mossad, che ha molte più risorse ed è sempre stato considerato il fiore all’occhiello dell’intelligence di Tel Aviv, finito sotto accusa perché non ha capito i rapporti di collaborazione tra Hamas e i russi.

Tutti sono impegnati in uno scaricabarile collettivo: Netanyahu accusa i servizi, e le due “diplomazie parallele” dell’intelligence si accusano a vicenda. Ma è “Bibi” che esce con le ossa rotte: il premier “securitario” ha assistito alla più grave strage del suo Paese negli ultimi anni, e la sua carriera politica sembra al capolinea. Come ha detto Lucio Caracciolo a “Otto e mezzo” due giorni fa: “Appena finisce la guerra, dovrà trovarsi un’altra occupazione”.

L’opinione pubblica, già sulle barricate per la contestata riforma della Giustizia, adesso è sconvolta da quanto accaduto, e imputa al premier la principale responsabilità.

La stampa israeliana, non a caso, sta menando forte su “Bibi”: il quotidiano di centrosinistra Haaretz ha pubblicato un durissimo editoriale in cui chiede le dimissioni del primo ministro: “Ha perso ogni legittimità e non ci si può fidare. È il primo premier nella storia delle democrazie a fare la guerra al proprio Paese, alle sue istituzioni e alle sue fondamenta”.

Netanyahu, insomma, è in forte difficoltà, e non sarà salvato dal governo di emergenza nazionale, per il quale ha chiuso oggi un accordo con uno dei leader dell’opposizione, Benny Gantz.

Il “gabinetto” di guerra servirà solo ad allentare la presa dell’estrema destra, la cui intransigenza è stata una delle ragioni principali dietro alla disfatta del premier. Il leader di Potere ebraico, Itamar Ben Gvir, ha monopolizzato le decisioni, spesso controverse, dell’esecutivo di Netanyahu e ha grosse responsabilità sull’attacco di Hamas.

La decisione di spostare la maggior parte dell’esercito a protezione dei coloni in Cisgiordania era stata infatti caldeggiata dal ministro della sicurezza nazionale. Il risultato? Svuotare di truppe il sud del Paese e renderlo più facilmente “attaccabile”  da Gaza.

Quindi ora che succede?

Gli Stati Uniti, impegnati ad evitare un’ecatombe umanitaria nella Striscia – non a caso stanno inviando aiuti e rifornimenti attraverso l’aiuto del presidente egiziano, Al Sisi – hanno aperto un negoziato che vede coinvolti Israele, Arabia Saudita e soprattutto il Qatar, principale finanziatore di Hamas, sede di una delle più grandi basi americane nel mondo, nonché dell’organizzazione sunnita radicale dei Fratelli Musulmani, collegata ai terroristi palestinesi.

A questi negoziati partecipa personale dell’intelligence e diplomatico. Washington ha un disperato bisogno di risolvere la vicenda rapidamente per due motivi. Il primo: tra gli ostaggi di Hamas ci sono una decina di cittadini americani. Il secondo: dovesse andare fuori controllo questo nuovo conflitto israelo-palestinese, si complicherebbe di molto il cammino, già lastricato di difficoltà, di Joe Biden per la riconferma alla Casa Bianca…

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