di Daniele Capezzone per Libero
Dev’essersi trattato di un caso di omonimia. Il Giorgio Napolitano ricordato ieri sui giornali italiani (un “liberale atlantista”, praticamente il successore di Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi) sarà probabilmente un omonimo del Giorgio Napolitano che invece è stato per tutta la vita uno dei massimi dirigenti del Pci-Pds-Ds.
Eppure, con eccezioni che non richiedono nemmeno tutte e cinque le dita di una sola mano (Libero, Giornale, Tempo e Verità), i quotidiani italiani hanno o completamente sbianchettato o abilmente smorzato la lunga appartenenza ideologica e politica di Napolitano. Tutte le pagine più scure (alcune francamente vergognose) sono state accantonate o stracciate: il Napolitano che nel 1956 sosteneva con veemenza la repressione sovietica in Ungheria (erano i giorni in cui L’Unità titolava: “Le truppe sovietiche intervengono in Ungheria per porre fine all’anarchia e al terrore bianco”); o ancora il Napolitano che nella prima metà degli anni ’70 attaccava Aleksandr Solzenicyn (per il Pci il problema erano i dissidenti, mica la dittatura di Mosca). Per non parlare del maxifinanziamento illegale che i comunisti italiani ricevettero per decenni dall’Urss: Napolitano è stato a lungo “ministro degli Esteri” del Pci, ma non si accorse di nulla, meno che mai del “grande traffico” (la sferzante definizione si deve a Bettino Craxi) che avveniva tra gli amministratori di Botteghe Oscure e le nomenklature del blocco sovietico.
Per carità. Qui a Libero sappiamo rispettare chi non c’è più: gli sfregi postumi e le vigliaccate non ci piacciono. E sappiamo anche decifrare l’evoluzione e la complessa traiettoria culturale e politica di Giorgio Napolitano. Semmai, il problema è la traiettoria semplicissima (menzogna, omissione tattica, inganno sistematico) seguita dal grosso dei media italiani. Una rapida rassegna stampa di ieri fa letteralmente impressione. Ecco il Corriere, che in prima pagina se la cava con un vago “Il Presidente delle scelte difficili”. E la storia comunista? Marzio Breda la liquida evocando il cammino di Napolitano «al fianco di Giorgio Amendola e il successivo passaggio alle sponde del socialismo europeo sulla scia ideale di Altiero Spinelli». Antonio Polito ci racconta un Napolitano «attivissimo nel tentativo di staccare il Pci dal mito rivoluzionario russo e di portarlo nell’alveo della socialdemocrazia europea».
E Budapest ’56? Fu un errore «da lui poi apertamente riconosciuto». Piccolo dettaglio: quel “poi” è arrivato cinquant’anni dopo i fatti. Quanto a Paolo Franchi, vira su aspetti psicologici e caratteriali: «un comunista atarassico», «preferì di gran lunga il fioretto alla sciabola». Non va meglio su Repubblica. «Amava l’Europa», si commuove il direttore Maurizio Molinari; «divenne King George», proclama impettito e lirico Gianni Riotta. E il Pci?
Repubblica ci spiega che Napolitano era “migliorista” (vero): ma ciò non toglie che, pur minoritaria, quella componente accettò sistematicamente la logica del centralismo democratico e la difesa della linea di partito. Eppure Concetto Vecchio garantisce che i miglioristi erano guardati «con sospetto», e che riformismo «era ritenuta quasi una malaparola». Ancora poco e si scopre che Napolitano era una specie di dissidente. Ma l’incredibile avviene con la surreale titolazione del pezzo – come sempre profondo e intellettualmente onesto – di Stefano Folli. Scrive Folli: «Non era un liberale…Era un comunista convinto e colto».
E come glielo titolano? “Un liberale tra le file del Pci”. Il conformismo totalizzante non ammette dissenso, nemmeno garbato. E la Stampa? Pure qui titoloni su Napolitano “l’Americano”, l’appartenenza al Pci smussata insistendo sul migliorismo, grande enfasi sull’eleganza e l’imperturbabilità dell’ex Presidente («era capace di non perdere la calma neppure dinnanzi all’Apocalisse», assicura Marcello Sorgi). E il Pci? Con l’eccezione di dieci righe correttissime di Fabio Martini, che ricorda un assai lungo periodo di allineamento alle posizioni toSopra e a fianco, alcuni dei titoli usciti ieri sulla morte del presidente emerito Giorgio Napolitano. Tutte le pagine più controverse della sua vita sono state accantonate o stracciate. Come il Napolitano che nel 1956 sosteneva con veemenza la repressione sovietica in Ungheria.
O il Napolitano che nella prima metà degli anni ’70 attaccava Aleksandr Solzenicyn. Per non parlare del maxifinanziamento illegale che i comunisti italiani ricevettero per decenni dall’Urss: Napolitano è stato a lungo “ministro degli Esteri” del Pci, ma non si accorse di nulla, meno che mai del “grande traffico” tra gli amministratori di Botteghe Oscure e le nomenklature del blocco sovietico.
gliattiane, qui il gioco è ancora più sofisticato, perché utilizza l’enfasi del volpone Massimo Cacciari e il lirismo più sdolcinato e appiccicoso di Veltroni ai fini di una sorta di redenzione dell’intera storia comunista italiana. Ecco Cacciari: «Per Napolitano il comunismo era intelligenza politica per superare disuguaglianze e liberare dal lavoro servile». Capito? I comunisti italiani non erano mica fiancheggiatori dello stalinismo: erano “intelligenti”. E Napolitano– poi – guardava all’Europa «senza rinnegare nulla del passato». Stessa musica, in versione più lagnosa, da Veltroni: «Non dimenticò mai le radici nel Pci».
L’ANTICO VIZIO
Ora, un primo guaio sta proprio qui: una certa fede cieca nell’Urss poi trasferita pari pari verso Bruxelles, con la medesima inclinazione storicista: la storia ha quella direzione, e se ti opponi sei un reazionario. Peggio ancora, con il vizio di adattare all’Ue le stesse giustificazioni usate per decenni per sminuire i fallimenti sovietici: l’idea comunista era giusta, purtroppo ne fu sbagliata l’applicazione, dicevano. Ecco, caduta mamma Urss, si è praticato lo stesso metodo con l’Ue: non ha funzionato? E allora datecene ancora di più.
Ma il secondo guaio è questo talento speciale della sinistra nel “correggere” la storia con effetti di autoconsolazione e rassicurazione. Quest’anno, per limitarci a due esempi, sono usciti un paio di film (Quando di Walter Veltroni e Sol dell’avvenire di Nanni Moretti) forse non eccezionali per qualità artistica, e peraltro assi diversi per stile, ma entrambi strepitosi nell’opera di rielaborazione. Veltroni (che ci offre una storia alla Goodbye, Lenin) rilegge la parabola del Pci attraverso gli occhi di un uomo che si risveglia dopo trent’anni di coma: ed è un trionfo di nostalgia, sbianchettando tutte le asprezze della storia comunista. Il protagonista arriva a dire: «Noi siamo sempre stati per lo strappo dall’Urss». Senza parole. Quanto a Moretti, il regista immagina nel suo film una sorta di favola, con il Pci nel 1956 a favore di Budapest e contro l’invasione sovietica. Peccato che le cose, nella realtà, siano state opposte, come abbiamo visto. Alcuni mesi fa, ha fatto molto bene Antonio Socci, qui su Libero, a commentare con severità questa attitudine della sinistra: un po’ di rimozione, un po’ di riscrittura, e l’autoassoluzione è servita. «La via cinematografica al revisionismo», ha efficacemente commentato Socci. Ieri, dopo la morte di Napolitano, dalla via cinematografica si è passati a quella commemorativa, ma con lo stesso obiettivo di sempre: falsificazione e propaganda.
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