di Nicki Ionfrida per IlParagone
Una domanda attanaglia le menti di molti italiani, i quali si trovano spiazzati di fronte alle contraddizioni della realtà dei fatti rispetto alla narrazione che per due anni ha ammorbato l’intero Paese, elargendo menzogne e false supposizioni, vendute al pubblico come assodate verità: “Perché i vaccinati possono ammalarsi gravemente e morire di Covid?”. Una spiegazione viene fornita da uno studio, uscito su Science Immunology. Uno degli autori di questo studio, Giuseppe Novelli, stimato genetista e responsabile della genetica medica al Policlinico Tor Vergata, è stato intervistato da La Verità, nel tentativo di spiegare al pubblico gli esiti del suo lavoro.
La differenza la fa l’ospite
«Già all’inizio della pandemia eravamo rimasti colpiti dal fatto che, sebbene tutti fossero stati contagiati dallo stesso virus, il 40% degli infetti era asintomatico, il 10-12% aveva sintomi leggeri, il 5-10% finiva in ospedale e circa il 2% in terapia intensiva. Ma se il virus è il medesimo, significa che la differenza la fanno l’ospite e la sua genetica». La premessa del professore è, fin qui, del tutto logica. Tornando al tema principale, lo studio condotto dai vari team scientifici ha dimostrato che «Una buona quota dei pazienti che finiscono in terapia intensiva, tra il 3 e il 10%, ha un problema genetico preesistente: non produce l’interferone o non riesce a utilizzarlo».
Cos’è l’interferone
Ma che cos’è l’interferone? «È praticamente la nostra prima linea di difesa contro ogni virus e ogni batterio. Fa parte di quella che noi chiamiamo “immunità innata”. Alla famiglia degli interferoni, poi, si collegano le citochine, quelle che, quando intervengono in maniera troppo massiva, provocano un danno infiammatorio» . Si fa riferimento, dunque, alla famosa tempesta citochinica che si scatena nei malati di Covid gravi «Esatto. È connessa al mancato o difettoso intervento dell’interferone: se la prima linea di difesa non funziona, si attivano massicciamente le seconde e le terze, scatenando così la tempesta citochinica», ovvero il cosiddetto “fuoco amico”, «che fa più danno, perché a far male non è il virus in sé, bensì, appunto, la reazione infiammatoria».
Perché muoiono i vaccinati
Andando al dunque, lo scienziato spiega perché il problema riguarda anche i vaccinati: «Noi facciamo affidamento su due tipi d’immunità: quella innata e quella acquisita, che a sua volta si ottiene o con il vaccino o con l’infezione. Le due immunità, però, devono lavorare insieme; se una è squilibrata, il sistema può incepparsi». Il problema dei vaccinati, quindi, non è che la mancata produzione di anticorpi nonostante l’iniezione: «La risposta anticorpale era normale. Abbiamo scoperto però che, oltre a una quota di pazienti che non produce l’interferone, ce n’è un’altra, che arriva fino al 20%, di soggetti che producono l’interferone, ma non lo utilizzano perché lo distruggono con gli autoanticorpi. È un problema autoimmune. Negli individui sani, questi autoanticorpi sono molto rari: li abbiamo trovati nello 0,17% di loro. Se ne trovano di più negli over 70, anche se sani: circa il 4%».
Anzianità e comorbidità
Se ne deduce che questo sarebbe uno dei motivi per cui gli anziani sono più esposti al Covid: «Negli anziani malati di Covid, infatti, li abbiamo trovati in quantità piuttosto elevate: gli autoanticorpi erano nel 20% dei deceduti per il Sars-Cov-2. Il virus, dunque, è un “trigger”, fa da innesco per la stimolazione di questi autoanticorpi, che però esistevano già prima della pandemia». E sul discorso sulle comorbidità il Dott. Novelli spiega che «Gli autoanticorpi li abbiamo individuati, come le dicevo, nel 20% dei soggetti morti di Covid. Persino in un paziente giovanissimo, di 12 anni. Negli altri casi, di solito, a facilitare un esito infausto della patologia sono altri problemi: diabete, obesità, malattie cardiovascolari…».
Lo screening sull’interferone
Assunto che il difetto genetico relativo all’interferone diventa una delle cause principali di aggravamento e, conseguentemente, di decesso, diventa lecito chiedersi se esistano dei test per accertare l’eventuale presenza di tale problema: «Certo, per gli autoanticorpi è sufficiente un banale test di laboratorio, che si esegue sul siero. Basta avere il kit e i reagenti. Per scoprire le mutazioni dei geni dell’interferone, invece, bisogna leggere il Dna e ciò richiede qualche competenza in più». Alla luce di queste informazioni, il tema si sposta inevitabilmente sull’opportunità di fare uno screening sulla popolazione, volto all’individuazione di un ulteriore fattore di rischio che identificherebbe precisamente una frangia di soggetti particolarmente “fragili”: «Be’, io faccio lo scienziato. Sono i politici che devono decidere…Più che pubblicare questa ricerca! Io dico che questo test sarebbe importante, perché alcuni colleghi americani e spagnoli hanno appena scoperto anche che chi ha quegli autoanticorpi anti interferone rischia non solo per il Covid, ma pure per la riattivazione di virus latenti, come l’herpes. È necessario individuare i soggetti più esposti, studiarli in maniera selettiva, approntare terapie specifiche: la medicina del futuro è una medicina di precisione, personalizzata».
Necessari ulteriori dati
Nel paper pubblicato sulla famosa rivista scientifica, viene però esplicitato che gli individui con questo difetto genetico potrebbero trarre beneficio dalle vaccinazioni ricorrenti. Il professore spiega in che termini: «La risposta immunitaria è duale, appunto: innata e acquisita. Se hai un difetto nella risposta innata, puoi compensare rafforzando quella acquisita. Perciò la quarta dose può essere utile, anche se il virus elude il vaccino e ci si infetta lo stesso». Sulla cosiddetta “paralisi del sistema immunitario”, dovuta alle troppe dosi ravvicinate, Novelli spiega che: «Ad ora, i dati sulla quarta dose, specie da Israele, dicono che una risposta immunitaria c’è. Per il futuro dovremo capire, bisogna acquisire ulteriori dati» – dati che, evidentemente, verranno raccolti sulla pelle dei soggetti che saranno obbligati a sottoporsi all’ennesimo richiamo, ndr -.
Le cure precoci e i monoclonali
In tema di cure precoci, monoclonali e antivirali, il saggio espone tutta l’importanza dell’utilizzo di tali misure: «Assolutamente, tant’è che la terapia precoce con i monoclonali, su alcuni bambini che avevano difetti nei geni dell’interferone trattati negli Usa, ha dato ottimi risultati. I monoclonali sono farmaci d’eccellenza. Il loro unico svantaggio è che sono altamente specifici; e infatti, quelli calibrati sul virus di Wuhan non sono efficaci per il ceppo di Omicron. Ma c’è una novità. I monoclonali di terza generazione: sono anticorpi modificati». In che modo? «Per farla semplice: di solito hanno due “attacchi”; se io gliene metto quattro, si moltiplica la capacità di legare il virus, anche quando muta. E non c’è bisogno di ricostruire ogni volta l’anticorpo a partire dalla “libreria” dei monoclonali sintetici. Basta anche prendere quello tarato sul ceppo di Wuhan e poi modificarlo. Insomma, anziché partire dalla libreria, parto dal libro e cambio solo qualche pagina. Noi abbiamo già cominciato la sperimentazione sugli animali».
Il nodo della messa in produzione
Sembrerebbe una buona notizia, ma il dott. Novelli getta subito acqua sul fuoco: «Qui casca l’asino. Con i fondi della ricerca noi produciamo la molecola; dopodiché la molecola deve diventare farmaco. E per quello ci vuole l’industria, ci vogliono le grandi organizzazioni strutturate che solo potentati economici, come la Pfizer, si possono permettere. Calcoli, ad esempio, che a ogni volontario umano che si sottopone a una sperimentazione va garantita l’assicurazione sulla vita; e Pfizer, per il primo vaccino, ha usato 30.000 volontari…» – in realtà sono circa 4,83 miliardi di persone se calcoliamo i soggetti a cui è stato somministrato il farmaco in via sperimentale, ai quali però non è stata garantita alcuna polizza, né tantomeno alcun indennizzo, almeno in Italia, ndr -. Ma quanti soldi servirebbero, insomma, per avviare la produzione di questi monoclonali aggiornati? «La mia ricerca sui monoclonali è costata qualche milione di euro. Per produrne poche dosi necessarie alla sperimentazione su 100, 150 persone (e non per la fabbricazione su larga scala, dunque) serve un’industria che investa altri 5-6 milioni di euro. Allora, o il privato ci mette su un capitale, oppure deve intervenire il pubblico, anche in partnership con il privato».
Le miocarditi post vaccino
Visto che, secondo la ricerca, l’ospite è tanto importante, è possibile che la genetica sia legata anche al discorso reinfezioni: «È un dettaglio che si sta studiando. Teoricamente, l’ipotesi ha senso. Per le stesse ragioni, con i colleghi di New York, stiamo facendo partire un progetto mondiale per tentare di capire come mai, ad alcune persone, il vaccino provoca le miocarditi, mentre ad altre no. Può darsi ci sia una suscettibilità genetica. Alcuni colleghi del Nevada hanno scoperto che, nei soggetti che hanno reagito alla vaccinazione con la febbre, era più frequente la variazione in un gene che noi chiamiamo Hla. E un’altra cosa che ci piacerebbe comprendere è perché il 30% dei guariti poi soffre di long Covid».
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