Cosa succede se Marine Le Pen diventa Presidente: la feccia è disperata. Sarebbe uno smacco fantastico alla feccia occidentale: stanno iniziando a farsela sotto

Aldo Cazzullo per corriere.it

«Per cinque anni, lui vi ha disprezzati. Per cinque anni, lui vi ha umiliati. È il momento: liberiamocene». Con tanto di hashtag: #sanslui , senza di lui. E lui è ovviamente Emmanuel Macron. Marine Le Pen inizia così tutti i comizi, anche l’ultimo a Perpignan. Perché ha colto nel vento una tendenza abbastanza terrificante per Macron: non c’è traccia del fronte repubblicano che cinque anni fa lo condusse all’Eliseo con un plebiscito; al contrario, tira un’aria da «tous sauf lui», chiunque tranne Macron.

Non a caso i sondaggi, che fino a qualche giorno fa indicavano una rielezione abbastanza tranquilla, danno Marine Le Pen quasi appaiata al presidente nel primo turno di domani, e al 49% al ballottaggio: a un passo dall’Eliseo. Sarebbe un terremoto, non solo per la Francia. Sarebbe una grande vittoria di Vladimir Putin. Una sconfitta per Biden, Scholz, Draghi. E sarebbe la fine dell’Unione europea come l’abbiamo conosciuta. Perché da questo punto di vista la figlia di Jean-Marie Le Pen non è cambiata: resta la populista, la sovranista, la nazionalista, l’anti-europeista di sempre.

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Rispetto al padre, si è liberata dell’ideologia e del linguaggio della vecchia destra. L’elogio di Vichy, la difesa del colonialismo — «una benedizione per arabi, africani, asiatici» — li lascia volentieri all’altro candidato della destra radicale, Eric Zemmour; che all’inizio sembrava per lei una rovina, e si è rivelato una fortuna. Cattiva coscienza della nazione, Zemmour ha attirato su di sé lo stigma della sinistra, della destra neogollista, dello stesso Macron, che l’ha definito un essere «politicamente abietto». Marine al confronto si è scoperta moderata. E si è pure tolta di mezzo la rivale interna, la nipote — figlia di sua sorella — Marion Maréchal, che ha preso una cantonata pazzesca schierandosi con Zemmour.

La Le Pen ha passato gli ultimi cinque anni a riscattarsi dal disastroso duello tv, perduto contro Macron, e dalla successiva disfatta elettorale. Ha vellicato i gilet gialli, senza schierarsi apertamente con loro, soprattutto quando hanno cominciato a picchiare i poliziotti. Ha giocato in difesa sulla pandemia, strizzando l’occhio ai no vax senza compromettersi, e adesso empatizza con i giovani «cui sono stati rubati due anni di vita».

Poteva trovarsi in difficoltà con la guerra russa, lei che dai russi è stata finanziata, attraverso la società Aviazapchast. E invece nei sondaggi del primo turno è risalita al 24%, insistendo su salari, potere d’acquisto, prezzo della benzina, bolletta dell’elettricità. A Parigi, sia negli arrondissement dei borghesi bohemien, sia in quelli dei veri ricchi, Marine non tocca palla. Ma i ceti popolari, gli operai, gli agricoltori voteranno per lei. E pure i disoccupati assistiti dallo Stato, che Macron vorrebbe far lavorare.

Vista da vicino, Marine Le Pen è una donna simpatica, gioviale, di forte presenza scenica, che ama il vino e il formaggio, e ama bere e mangiare in pubblico fin da quando voleva marcare la differenza con Sarkozy che è astemio e allergico al lattosio. Ha cambiato mariti e fidanzati, crede nei diritti civili, assicura di non aver mai giudicato in vita sua «un essere umano dal colore della pelle, dal nome che porta, dal posto da cui viene». Ma nel fondo non è cambiata. La sua proposta di riforma dell’Unione europea è di fatto l’abolizione dell’Unione europea. È la fine della libera circolazione stabilita con gli accordi di Schengen. È il no al debito comune, creato con la pandemia. È il rifiuto dell’esercito europeo, della diplomazia europea, del fisco europeo. È l’idea che i francesi siano migliori del resto dell’umanità.

I suoi comizi sono sempre gli stessi. Improntati sulla lotta tra «Noi» e «Loro». Loro sono i mondialisti, i globalisti, gli europeisti, i liberisti, i giornalisti, i banchieri, i consulenti di McKinsey che hanno scritto a pagamento l’impopolare riforma delle pensioni senza neppure pagare le tasse in Francia (e questo è stato un grave errore di Macron). Noi, dice Marine, siamo i patrioti, i localisti, i nazionalisti, i protezionisti, coloro che si occupano degli ultimi, delle «famiglie fragili», delle «persone ferite dalla vita», dei «relegati nell’angolo morto della società», dei «piccoli francesi su cui non si china nessuno». Coloro che si battono contro «lo scioglimento della Francia nel grande magma mondialista, di cui l’Unione europea è il preludio». Coloro che difendono «la grandeur de la Nation», la grandezza della Nazione. Segue canto della Marsigliese.

La storia della Francia degli ultimi quarant’anni, da Mitterrand a Macron, è rappresentata nei comizi lepenisti come la storia di un drammatico declino. Un Paese meravigliosamente bello e ricco non solo di arte, cultura, letteratura, turismo, ma anche di tecnologia, energia nucleare, armi atomiche, financo figli (la Francia ha una demografia di gran lunga migliore della Germania) viene raccontato come una landa desolata, composta da «quartieri dove la polizia non entra», isole della Tortuga «dove la legge dello Stato non ha alcun valore». Ma purtroppo questi luoghi esistono, e i suoi abitanti votano in massa per lei. Così come esiste tra i francesi la sensazione di non contare più nulla e di non essere più nulla, in balia dei flutti dell’immigrazione e della globalizzazione, per cui «la Francia sta per essere sommersa e cancellata dai libri di storia» come grida Marine.

Intendiamoci: la Le Pen resta un outsider. L’establishment francese non la vuole. Valérie Pécresse, la candidata neogollista, al secondo turno voterà Macron (anche se, a differenza di Fillon nel 2017, non darà consegne di voto). Il Figaro, il quotidiano più antico di Francia, proprietà di Dassault quello delle armi, appoggia il presidente. Il punto è capire quanto conta ancora l’establishment. Tra pochi giorni sapremo se Marine è la Mitterrand di destra, capace di vincere dopo tanti assalti e altrettante sconfitte; o se invece resta una campana di allerta, che suona sempre più forte per avvertire i governanti d’Europa che i sentimenti non contano meno della razionalità, che il popolo va ascoltato e non disprezzato, che gli elettori vanno presi sul serio e non dati per scontati.

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