“Ho visto la vita oltre la morte” Salvato dal malore improvviso, il politologo di regime racconta l’incredibile esperienza delle ore passate in stato di coma

Estratto dell’articolo di Giovanni Viafora per il “Corriere della Sera”

Vittorio Emanuele Parsi, il 27 dicembre mentre parlava sul palco a Cortina ha accusato un forte dolore al petto. Poche ore dopo era in sala operatoria, un’operazione in extremis per salvarle la vita. È stato in coma per giorni, in tantissimi sono rimasti col fiato sospeso. Ora come sta?

«In questo momento sono a Roma, a casa, con Tiziana Panella (giornalista di La7 ), la mia compagna, quindi molto meglio rispetto all’ospedale. Sono molto stanco. Però se penso a quindici giorni fa: solo scendere dal letto mi chiedeva una tale forza di volontà…».

Cosa ricorda di quella sera?

«Ho sentito tre colpi sul diaframma, come fossi in apnea. Da sommozzatore sai che quando li senti devi riemergere, è l’ultimo avvertimento. Ho capito che c’era qualcosa di grave. Finita la conferenza, ho chiesto che si chiamasse un medico. È arrivata l’ambulanza, siamo andati all’ospedale “Codivilla”».

Si pensava ad un infarto.

«[…] La struttura decisamente non era attrezzata. Io stesso, dopo i primi esami negativi, stavo per dire: “vi saluto, devo partire per le vacanze”. Avevo un aereo il giorno dopo: sarei morto. Invece sono stato portato a Belluno in ambulanza, e lì ho avuto la fortuna di trovare il primario di Cardiologia, Alessandro de Leo che ha subito capito che la mia era una dissezione dell’aorta […] Mi ha detto due cose […]. La prima: dobbiamo farle un’operazione salvavita. La seconda: può andare male. Ho potuto fare due telefonate».

[…] «[…] Mi hanno portato con l’elicottero a Treviso, dove ho trovato chirurghi di eccellenza, come Francesco Battaglia, Antonio Pantaleo e Giuseppe Minniti».

Un’operazione complessa. È rimasto a rischio per giorni.

«Ricordo tutto il periodo in coma. Uno Stige, un fiume melmoso, nero, che stava sotto i miei piedi, come Ulisse e Achille. Ricordo di avere visto le radici degli alberi da sotto, come fossi in un crepaccio. E di tanto in tanto, voci lontane».

Cosa sentiva?

«Non dolore ma stanchezza fisica, una immensa spossatezza. A un certo punto mi sono chiesto se fossi morto. Ho pensato: non ce la faccio, forse basta lasciarsi andare e tutto passerà. La morte non potrà essere tanto peggio». […] «Poi ho pensato alle mie figlie e a Tiziana. Ho visto il suo volto, volevo rivederlo. È chiaro che non volevo lasciare sole neanche le mie figlie, ma in qualche modo prima o poi i figli li lascerai.

Ho parlato con mia madre e con mio padre, che non ci sono più: “Datemi una mano voi, non è il momento di raggiungervi”. È stato allora che ho materializzato nella mente quegli omini di gomma che vendevano nei ruggenti anni ’70 e ’80, che si lanciavano sul vetro e si appiccicavano e salivano e scendevano… Ecco, ho visto me stesso un po’ come uno di quegli omini, a risalire l’immenso crepaccio, con tutta la fatica del mondo. E quando poi sono arrivato in cima ho aperto gli occhi. E ho visto Tiziana che era lì con me».

E cosa ha provato?

«Ho pianto».

È stata un’esperienza di premorte, come la chiamano?

«Penso fosse l’Ade. Il fiume in cui stanno le anime morte. Non ho visto nessuna luce, nessuna speranza che non fosse quella di lottare per vivere. Forse quando si muore la sensazione è quella di un abbraccio. La morte la viviamo come spaventosa, io non ne ho mai avuto grande simpatia, non nutro aspettative su quello che verrà dopo. Però la cosa che mi ha sorpreso è che non provavo paura».

Non ci si prepara.

«Scherzando con Tiziana dicevo sempre: dov’è l’incudine?».

L’incudine?

«Sono un cultore di Willy il Coyote, quello che dava la caccia a Beep Beep. Quando Willy cadeva l’incudine era sempre più leggera. Ne veniva fuori, e ricominciava la sua caccia a Beep Beep. Ho pensato: eccola, questa è l’incudine. […] Mi ricordo di aver pensato: caspita, se questa volta la sfango, devo fare più attenzione».

In che senso?

«Godermi di più la vita. Sono sempre stato molto frenetico, al limite del parossismo, ero abituato che il tempo esiste per essere occupato, che le idee ti vengono in treno, in aereo, parlando con la gente. I momenti felici, invece, vanno centellinati».

Come è stato il risveglio?

«Terribile. Sentivo i medici che dicevano: “Lo estubiamo domani, lo estubiamo oggi…”. Avrei voluto che lo facessero subito. Ho cercato di strapparmi tutto, hanno dovuto legarmi al letto. Nelle ore finali, intubato, guardavo l’orologio, vedevo passare i quarti d’ora uno per uno. Uno strazio. Quando mi hanno tolto i tubi è stato come rinascere. […]».

Si impara qualcosa sugli altri, in una situazione così?

«Ricordo quando l’infermiere mi ha lavato la prima volta, con una spugna. Mi sembrava come nell’Iliade, quando lavano il corpo del morto. […] Mi ha confortato nell’idea che gli esseri umani sono naturalmente empatici. In fondo è quello che fa la democrazia, un sistema gentile: aiuta a esercitare l’empatia».

Diceva di Tiziana. Che rapporto avete?

«Lei ha un soprannome che le ho dato, che dipende da vicende non fortunate che l’hanno riguardata. È “cerottino”. Ero convinto di essere io quello forte. E invece devo dire che la sua forza è emersa a darmi una grande serenità».

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