Belpietro ride da morire: la querela di Renzi per la bellezza di 2 milioni di euro finisce on una duplice bastonata! Il gengivone non solo ha perso, ma deve lui pagare una bella

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità”

Matteo Renzi oggi fa il giornalista nel tempo che gli lasciano gli altri suoi mestieri: senatore, lobbista, conferenziere e advisor del principe saudita Mohamed bin Salman. Ma prima di sedersi sulla poltrona di direttore editoriale del Riformista ha chiesto di processare La Verità per centinaia di articoli, una lite considerata dal difensore del nostro giornale, Claudio Mangiafico, ai limiti della temerarietà.

Il giudice civile di Firenze Susanna Zanda ha dato ragione al nostro difensore, ha definito la domanda del fu Rottamatore «infondata» e ha condannato Renzi a pagare 38.000 euro di spese di lite. In passato il fu Rottamatore aveva mandato avanti i familiari nelle cause contro di noi, ma nel 2020 si era messo in proprio e aveva deciso di farcele pagare tutte insieme, accusandoci di aver orchestrato una campagna mediatica diffamatoria lunga quattro anni.

Per esempio, con notevole sforzo di ricerca […], è riuscito a contare 583 articoli e 134 prime pagine in cui era definito «Bullo». Ma si era lamentato anche di essere stato chiamato «Gran Cazzaro», «Premier Cazzaro», «Ducetto», «Ducetto fiorentino», «Ducetto di Rignano» e «Premier Cazzone».

Il giudice, nella sentenza di 36 pagine, sciorina un’ampia giurisprudenza, che va dai provvedimenti nazionali a quelli sovranazionali, compresi quelli della Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu), a cui spesso tocca comporre il conflitto tra libertà di stampa e reputazione.

Per esempio la Zanda cita una sentenza contro la Turchia da cui si ricava […] che «nei confronti dell’homo publicus la Cedu ammette una particolare virulenza e anche una dose di esagerazione e di provocazione» e che «nella sua giurisprudenza non vi è traccia di un dovere di moderazione del linguaggio».

Il giudice ricorda, inoltre, che l’articolo 10 della Convenzione per i diritti dell’uomo «viene interpretata in senso di massima espansione della liberta di espressione in caso di critica politica o di satira politica, senza quasi alcun limite […]» e che una sentenza del tribunale di Roma, sfavorevole alle doglianze di Silvio Berlusconi, sosteneva che l’articolo 21 della Costituzione è teso «a proteggere la liberta proprio di quelle opinioni che urtano, scuotono o inquietano».

Per la Zanda, dunque, «si puo concludere che l’attributo “bullo” quand’anche ripetuto e diffusamente impiegato verso uno stesso uomo politico non possa essere considerato diffamatorio».

Renzi ci ha anche portati in aula per diversi articoli che contenevano un accostamento della sua persona con i guai giudiziari che riguardavano i suoi familiari o i suoi collaboratori.

Nel lungo elenco rientravano le inchieste sulla presunta truffa ai danni dell’Unicef che coinvolge il cognato, sulle bancarotte delle cooperative riconducibili ai genitori, sui maneggi intorno agli appalti Consip, sui finanziamenti alla fondazione Open, sull’acquisto della villa fiorentina dell’ex segretario Pd effettuato grazie ai generosi bonifici di alcuni amici, ma anche un articolo su un 25 aprile trascorso da Renzi in Arabia Saudita.

Riguardo a tutti questi casi il giudice si limita a osservare che «non risulta che sia stato scritto il falso ossia che l’attore (Renzi, ndr) fosse iscritto nel registro degli indagati», ma che era solo «stato rappresentato un oggettivo e soggettivo collegamento di quei fatti e delle persone coinvolte» al leader di Italia viva, «in quanto oggettivamente parenti o affini».

Per la Zanda, «d’altra parte, è di interesse pubblico sapere che per esempio i genitori o i fratelli del cognato di un uomo che abbia la gestione della Cosa pubblica siano indagati per reati come quelli descritti negli articoli di cui si duole» l’ex sindaco di Firenze.

Il quale, a parere del giudice, «dunque fondamentalmente vorrebbe impedire al libero giornalismo di informare la popolazione di questi fatti, solamente perché egli non era iscritto nel registro degli indagati». Una sottolineatura che non è esattamente una medaglia per chi oggi si misura con il mestiere del giornalista.

La conclusione del giudice è coerente con quanto sopra esposto e non lascia spazio alle lagnanze del «Bullo»: «Per tutti questi motivi la domanda e destituita di fondamento in quanto tutte le condotte descritte in citazione sono espressive della liberta di espressione», scrive la toga, «e non possono essere censurate con una condanna di risarcimento dei danni».

La Zanda bacchetta Renzi anche per la somma, definita «eccessiva», che aveva richiesto (2 milioni di euro), «ossia quasi sette volte il pretium doloris della perdita di un figlio, secondo le tabelle milanesi per il danno parentale». Il giudice ricorda anche che «il massimo che ordinariamente si potrebbe richiedere per diffamazione e la somma di 50.000 euro».

[…] Ma proprio per questa ingordigia, anche le spese legali che dovrà rifondere sono sostanziose, essendo «calibrate sull’importo della domanda rigettata». Il giudice che ha rispedito al mittente le richieste del leader milionario è lo stesso che ha accusato l’ex capo del governo, in una causa contro Marco Travaglio, di «usare il tribunale civile come una sorta di bancomat dal quale attingere somme per il proprio sostentamento, anche quando lo si coinvolge senza alcun fondamento» e che lo ha condannato a pagare 42.000 euro per «abuso dello strumento processuale», oltre ad altri 30.000 euro di spese legali.

Adesso la Zanda, già presa di mira dal Riformista di Renzi, rischia di subire il trattamento già riservato ai pm che hanno osato processare i genitori del fu Rottamatore, il quale nei giorni scorsi […] aveva […] mischiato le carte e scritto sui social: «La decisione della Corte di cassazione chiude un processo, quello contro i miei genitori, che non avrebbe mai dovuto essere aperto. Solo l’ostinazione pervicace e ideologica della Procura di Firenze ha costretto lo Stato italiano a spendere centinaia di migliaia di euro del contribuente per una vicenda giuridicamente inesistente».

In realtà, secondo i giudici di Appello, che avevano già assolto Tiziano e Laura, «inesistente» e «insussistente» era il «progettino» che aveva consentito alla coppia di fatturare circa 200.000 euro.

Ma per le toghe babbo e mamma non avevano emesso le fatture farlocche per consentire a terzi l’evasione fiscale, ovvero non avevano commesso il reato che i pm gli avevano contestato. Chi, invece, nello stesso processo, è stato accusato di truffa per quei pagamenti, è stato condannato in via definitiva. In un altro […] tweet Renzi ha sparato sull’intera Procura di Firenze che lo ha indagato per finanziamento illecito, definita «delegittimata e squalificata». Ma nonostante qualche giornale amico ancora gli vada dietro, sembra che almeno i giudici abbiano capito perché al suo paese Matteo fosse soprannominato «il Bomba».

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