Sono stato licenziato dalla Cgil dopo 40 anni: la gentaglia che non ha mai lavorato ha sfruttato quello stesso Job’s act che vuole eliminare

Non capita a tutti di essere licenziati dal sindacato. A me è successo. Vi racconto il mio 4 luglio, nella speranza che non sia una data casuale e che possa essere un nuovo inizio

di Massimo Gibelli per Huffpost

Sono di natura timido e per quanto mi sforzi ho sempre difficoltà a essere oggetto di attenzione, a stare sul palcoscenico, sotto i riflettori. Sarà anche per questo che ho scelto di lavorare dietro le quinte, di supportare chi aveva il compito di apparire, di rappresentare, di affermare in pubblico un’idea, una visione. E anche oggi, che sono mio malgrado costretto a farlo, risulta difficile parlare di me, di quanto sta accadendo. In questi due mesi, per quanto possibile, l’ho evitato. Ho informato i familiari, ovviamente. Gli amici più stretti, le persone con le quali ho maggiore confidenza e quelle a cui, per motivi di lavoro, era impossibile ometterlo. A tutti ho sempre chiesto riservatezza e tutti non hanno tradito la mia fiducia.

La notizia, mio malgrado, si sta diffondendo. Qualche giornalista ha iniziato a telefonare e chiedere spiegazioni. Meglio allora che il racconto sia in prima persona. Meglio evitare che questa mia piccola, personale vicissitudine possa essere in qualche modo strumentalizzata. I milioni di iscritti alla Cgil non lo meriterebbero davvero.

Meglio dirlo subito. Non sono scappato con la cassa, non sono inquisito o sotto indagine della magistratura. Non ho litigato, insultato o commesso ingiustizie nei confronti di colleghi.

Non sono venuto meno ai miei doveri di lavoratore, né di lealtà nei confronti della Confederazione Generale Italiana del Lavoro. Non ho commesso nulla che potesse compromettere il rapporto di fiducia esistente.

Nel febbraio del 2021 la Segreteria della Cgil nell’ambito di una razionalizzazione e riorganizzazione delle attività del centro confederale ha deliberato la soppressione della posizione di “Portavoce del Segretario Generale”, incarico che allora ricoprivo. In un comunicato venni pubblicamente ringraziato per il lavoro svolto fino ad allora. Mi resi immediatamente disponibile ad essere utilizzato in altro incarico, in qualunque posizione e struttura l’organizzazione ritenesse proficuo utilizzare le mie competenze.

Passati due anni, finito il Congresso, eletta la nuova segreteria, nel marzo scorso, scrivo una mail al segretario organizzativo – nel sindacato è il dirigente competente al funzionamento dell’organizzazione, alle politiche del tesseramento e, molto approssimativamente, al personale – per ricordare che, da un biennio sono privo di incarico e compiti, e ribadire la mia disponibilità a essere utilizzato ovunque si renda possibile, utile e necessario.

Il 4 luglio, al rientro da un breve periodo di ferie, sono convocato dal segretario organizzativo. Durante il colloquio mi viene comunicato il “licenziamento per giustificato motivo oggettivo” e consegnata la lettera raccomandata a mano in cui si specifica che “la data odierna, 4 luglio 2023, è da considerare l’ultimo suo giorno di lavoro”. Seguono ringraziamenti e saluti di rito.

Ovviamente il licenziamento è stato impugnato e sono ora in corso le conseguenti procedure.

Vale la pena ricordare che la Cgil è un’organizzazione di 5 milioni di iscritti, composta da 12 categorie nazionali, 21 strutture regionali, 102 Camere del lavoro, patronati, Caaf, società di comunicazione, sedi all’estero in tre continenti, incarichi in enti pubblici e in commissioni di varia natura retribuiti e non. Di sicuro dimentico altro!

Il diritto del lavoro è materia complessa e mutevole, risultato del sovrapporsi di innumerevoli leggi e riforme. Il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo è previsto dall’articolo 3 della legge n. 604 del 1966, più volte modificato nel corso degli anni, in ultimo dalla riforma Fornero del 2012 e nel 2015 dal Jobs Act di Renzi. Leggi che furono fortemente contestate dal sindacato.

Facendo riferimento all’art. 41 della Costituzione che garantisce e tutela la libertà dell’iniziativa economica privata, il datore di lavoro può ricorrere a questa forma di licenziamento nel caso in cui la sopravvivenza della propria attività sia a rischio, oppure quando la specifica posizione occupata dal lavoratore non abbia più ragione di esistere nell’organico aziendale. Si parla in questi casi di licenziamento economico.

In sintesi, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è lecito quando: viene soppresso il settore lavorativo, il reparto o la postazione nel quale lavora il dipendente; il dipendente viene licenziato in modo corretto e per motivazioni valide, senza effettuare discriminazione; si dimostra che non è possibile reimpiegare il lavoratore in mansioni diverse all’interno dell’azienda; viene dato un corretto preavviso, in base al contratto in essere.

L’onere di provare la sussistenza dei motivi indicati nella lettera di licenziamento spetta al datore di lavoro, il quale deve anche dimostrare che il lavoratore interessato dal licenziamento non può essere collocato diversamente, il cosiddetto obbligo di “repêchage”.

Un caro amico e importante editore, una volta mi disse: “Sei come un cardinale che nel tempo vede passare i Papi”. Risi di quel buffo paragone, una briciola di saggezza però l’aveva. Negli anni di Giuseppe Di Vittorio non ero nato, in quelli di Agostino Novella ero un bambino. In seguito, in un modo o nell’altro, ho coadiuvato tutti i segretari generali, da Lama in poi.

Fui assunto nel 1983 come addetto stampa socialista – allora nel sindacato contavano le appartenenze politiche – nella Cgil piemontese guidata da Fausto Bertinotti. Per brevissimo tempo, con Luciano Lama segretario, ragazzo di bottega all’ufficio stampa. Poi capo ufficio stampa nella Cgil di Pizzinato e di Ottaviano del Turco. Con Ottaviano, per me un fratello maggiore, nel pieno di tangentopoli e dell’umiliazione socialista girammo in lungo e in largo l’Italia per cercare di difendere l’onore dei sindacalisti socialisti. Erano gli anni in cui mi fermavo la sera fino a tardi a corso d’Italia, sede della Cgil, in discussioni infinite con Claudio Sabattini, allora responsabile dei rapporti internazionali della confederazione. Io poco più che ragazzo, lui importante dirigente ascoltava con tollerante pazienza.

Con Bruno Trentin negli anni della concertazione e del sindacato dei diritti. Ero con la delegazione che decise nel 1992 di firmare l’accordo con il governo di Giuliano Amato e che portò alle sue dimissioni. Ero al tavolo della trattativa nel 1993 quando si varò la politica dei redditi e si portò l’Italia in Europa. Ero con lui la notte delle bombe stragiste a Roma e dell’isolamento telefonico dei palazzi del potere. Quella notte mi dettò una nota da diffondere alla stampa degna di un capo partigiano. la Cgil tutta doveva essere in allarme. Tradotto significava “presidiare le sedi”, “dormire fuori casa” e tenersi pronti alla mobilitazione.

Portavoce di Sergio Cofferati, il 23 marzo del 2002 ero al Circo Massimo, su quel palco a 25 metri di altezza che dominava i tre milioni giunti a Roma per difendere l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Sostenni Guglielmo Epifani, un vero amico, nella sua corsa a divenire il primo segretario generale socialista della Cgil del dopoguerra, a supportarlo nei primi mesi del suo mandato e a decidere, insieme, per il bene dell’organizzazione e della sua Segreteria, un mio passo indietro dopo gli anni molto caratterizzanti del mio lavoro con il suo predecessore.

Con la segreteria di Susanna Camusso, prima donna a coprire quel ruolo, tornai a guidare, se così si può dire, la comunicazione Cgil. Anni difficili, la peggiore crisi economica dal dopoguerra, la destrutturazione della politica, il progressivo dissolvimento degli storici legami politici, la disintermediazione, il sindacato sotto il fuoco amico. E nonostante questo importanti accordi con le controparti, il ritorno della prospettiva sindacale unitaria, il forte contrasto al jobs act e alle politiche di destrutturazione del lavoro, il disegno di alcune riforme.

Infine, la candidatura e l’elezione di Maurizio Landini, l’ultimo segretario della Cgil. I suoi anni iniziali di mandato. I titoli d’apertura sulle prime pagine dei giornali nazionali, soprattutto quello di Repubblica del primo maggio 2019, la sua prima Festa del Lavoro da Segretario: “Un solo sindacato per il lavoro”. In quel “solo” l’unica possibile via di uscita e di salvezza per un sindacato ininfluente ed isolato, che vive una drammatica crisi di rappresentanza, “solo” nel mezzo di un cambiamento epocale del lavoro e della società. In quel “solo” l’unità sperata con Cisl e Uil, da sempre cercata, a volte a un passo dall’essere raggiunta, ma ogni volta tradita.

Quarant’anni passati in un sindacato da cui ho avuto molto e a cui, spero, di aver lasciato qualcosa. Negli occhi e nel cuore le migliaia di lavoratori e dirigenti di base che ho incontrato nel mio peregrinare per l’Italia e l’Europa insieme al Segretario generale di turno, e da cui ho sempre ricevuto, ovunque ci trovassimo, stima, affetto, aiuto, sostegno, idee e supporto, anche oltre l’immaginabile.

Un ringraziamento a chi in questi ultimi mesi mi è stato vicino con calore e solidarietà e a chi lo vorrà essere in futuro. Uno in particolare ad Alessandra Constante, Segretaria del (mio) sindacato dei giornalisti, la Fnsi.

Non so dire se la scelta della data in cui mi è stato comunicato l’ultimo giorno di lavoro sia stata casuale o ragionata. Per quanto mi riguarda, mio malgrado, voglio pensare, devo pensare, che il 4 luglio, l’Independence Day, possa essere un nuovo inizio.

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4 comments
  1. Cosa hai fatto per migliorare le condizioni contrattuali e lavorative delle persone che rappresentavi? Perchè il fatto più evidente è la perdita di potere di acquisto e la perdita di diritti avvenuta negli ultimi 30 anni e guarda caso eri li insieme ai responsabili. Adesso piangi, come hai permesso che accadesse a milioni di persone che facevano affidamento alla cgil, ma al contrario degli altri sei stato artefice del tuo licenziamento, in parole semplici ti sei autolicenziato. Allora guardati allo specchio e vergognati, non cercare altri colpevoli sarebbe solo una scusa per non considerare correttamente le proprie azioni.

  2. Che vada al diavolo. Voleva l’obbligo di siero fogna per tutti i lavoratori, di comune accordo con i verri di Confindustria.
    Il suo amicone Draghi forse gli darà un nuovo impiego.

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