“Ho trovato il generale tutt’altro che folle” Maurizio Belpietro e Francesco Borgonovo raccontano Vannacci con un’intervista esclusiva

Estratto dell’articolo di Maurizio Belpietro per “La Verità”

Il modo migliore per mettere a tacere qualcuno è dargli del matto. In Unione sovietica, i dissidenti addirittura li ricoveravano, sostenendo che avessero bisogno di cure psichiatriche. Ora, non voglio mettere sullo stesso piano Roberto Vannacci con il poeta Iosif Brodskij, internato per alcune settimane in un reparto d’ospedale prima di essere mandato al confino; tuttavia, è un dato di fatto che le parole più usate nei suoi confronti dopo l’uscita del Mondo al contrario lascino intendere che farnetichi, ossia che sia in uno stato di alterazione che lo porti a vaneggiare.

Beh, io non l’avevo mai visto né sentito prima, ma ieri insieme con Francesco Borgonovo, ho avuto la possibilità i intervistarlo per la Tivù Verità e vi debbo confessare che l’ho trovato tutt’altro che folle. Dalle risposte che ha dato alle nostre domande, ne ho ricavato che l’uomo ha idee precise su una serie di argomenti.

Nel suo libro lei affronta il problema dell’immigrazione, che è notoriamente connesso a tante altre questioni, ad esempio la sicurezza nelle città, cosa di cui ci rendiamo conto quotidianamente. Oggi c’è un nuovo governo, che vuole intervenire per risolvere la questione, anche se al momento le soluzioni messe in campo non sembrano funzionare. Lei concretamente cosa farebbe su questo tema?

«Premetto che non ho delle soluzioni perché non sono un esperto di questioni migratorie internazionali. […] Io paragono i flussi migratori alla fisica dei fluidi, dove i fluidi si spostano dall’alto verso il basso, perché questa è la legge fisica che li regola. Occorre ribilanciare questo piano inclinato, sia dalla parte in cui è più alto – cercando di creare delle condizioni più favorevoli nei Paesi di origine – sia dalla parte in cui è più basso – cercando di rendere più difficile, a chi non ha la stretta necessità o non è in pericolo di vita, di venire in Europa».

Cosa intende? Pensa ad esempio a una stretta sugli ingressi o sui permessi di soggiorno?

«Non ho specificato esattamente su cosa intervenire, ma di certo non dovrebbero essere i Paesi di provenienza a decidere quante persone debbano arrivare in Europa. E poi c’è un limite fisico. Quante persone può accettare l’Europa? 10, 100, 500 milioni? Prima o poi ci dovrà essere uno stop. E quindi, accettando i primi che si presentano facciamo un’operazione di giustizia o è soltanto un’azione dettata dall’emergenza? Secondo me un proposito di giustizia sarebbe aiutare i più bisognosi, non i primi che si presentano alla porta, First come, first served, come dicono gli inglesi. Quindi bisognerebbe fare una selezione di quelli che veramente sono i titolari di quei diritti incontestabili e che veramente hanno bisogno. Aprire invece le porte a tutti significa non avere un criterio, non avere una meritocrazia».

Lei in Africa c’è stato da militare, spesso a portare aiuto alle popolazioni, e ha conosciuto alcune realtà di quel Continente. Ritiene che l’Europa abbia una responsabilità riguardo alla condizione in cui versano alcune nazioni africane?

«Sì, c’è sicuramente una responsabilità, ma non è solamente europea, è una responsabilità mondiale. Il mondo di oggi, a volte così disumano, è creato da anni di storia. Ciò che noi oggi chiamiamo Occidente, questo va detto, ha anche generato molti effetti positivi su questi Paesi in via di sviluppo. […]

 Se oggi l’aspettativa di vita mondiale è cresciuta incommensurabilmente rispetto a 200 anni fa è grazie al progresso dell’Occidente, è grazie al progresso scientifico e anche – aggiungo – grazie all’inquinamento. L’inquinamento secondo me è l’effetto collaterale di una medicina, che si chiama progresso. D’altra parte, come sappiamo, tutte le medicine hanno degli effetti collaterali».

Mi incuriosisce molto questa sua idea, perché una delle conseguenze della politica green è esattamente l’impoverimento: la famosa decrescita felice teorizzata da qualcuno, che spesso si rivela infelice. Già oggi vediamo le nostre aziende in grande difficoltà e questo si traduce in un boom di disoccupati. […] Secondo lei quali saranno gli effetti di questo cambiamento epocale?

«Nel mio libro affronto questa questione, ma non da scienziato. Parto da osservazioni empiriche, avendo visto dei Paesi dal cuore della loro povertà. E posso dire con certezza che non esiste un ambientalismo e un’ecologia senza ricchezza. Tutti i Paesi che applicano delle politiche ecologiche e ambientaliste sono ricchi, qualsiasi Paese povero da un punto di vista ecologico è un disastro. Quando arrivo in Africa, riesco a riconoscere che sono lì da un odore particolare, si chiama l’odore dell’Africa. Una componente di questo odore è il risultato della combustione dell’immondizia per la strada.

Per cui, l’ecologia è sacrosanta, ma è costosa.

Per essere ambientalisti bisogna essere ricchi, quindi secondo me le soluzioni sono due: aumentare la ricchezza, che è il primo fattore assolutamente indispensabile, e accrescere la nostra conoscenza tecnologica e scientifica. Invece di frignare, dobbiamo studiare ingegneria, fisica, chimica, informatica, perché la base della sostenibilità ecologica è il progresso scientifico […]».

Cosa pensa della nostra permanenza nell’Unione europea? Secondo lei l’Europa è una gabbia o uno strumento di miglioramento?

«Le rispondo da militare. Non c’è dubbio che l’Ue sia uno strumento più potente rispetto a un singolo Stato che affronta un problema mondiale. Se lei mi chiedesse di andare in battaglia con dieci divisioni, sarei molto più contento rispetto ad andarci con un plotone di poveri sparafucile. Quindi, certo, l’Europa è uno strumento utile e potente. Deve essere orientato, deve conglomerare le istanze di tutte le nazioni e soprattutto deve trovare un punto di sintesi, perché il problema dell’Unione europea è che ha una difficoltà nel cercare di trovare la sintesi tra gli interessi dei Paesi.

Come per esempio la Norvegia, che solamente per una questione geografica ha interessi totalmente diversi da quelli che si trovano sulla sponda del Mediterraneo. Quindi l’alchimia deve essere cercare di trovare un minimo comune denominatore, ma lasciare autonomia ai Paesi, perché sono talmente diverse le situazioni geografiche, sociali e politiche degli Stati dell’Unione europea, che non si può pensare di trovare una scarpa che vada bene per tutto, one size, one fit. Insomma, serve più autonomia per gli Stati affinché possano contrastare meglio le avversità che si trovano ad affrontare da un punto di vista socioeconomico».

Passando all’Italia. Nel suo libro si occupa diffusamente di questioni sociali: che cosa pensa della situazione degli stipendi e dell’impoverimento generale della popolazione?

«Credo che l’impoverimento della popolazione sia un dato oggettivo. Quando ero ragazzino la mia famiglia era monoreddito. Parlo del 1973-74 e ricordo che con uno stipendio si mandava avanti una famiglia. Mio padre mi diceva che con un terzo della paga mensile ci pagava l’affitto, con un terzo il cibo e con il rimanente tutte le altre esigenze familiari. Oggi non è più così, una famiglia monoreddito quasi non riesce più a sbarcare il lunario.

[…]  Riguardo alla povertà: io dico che non è una colpa, ma non può nemmeno essere considerata una condanna. Per cui probabilmente ci sono anche delle responsabilità da parte di chi questa povertà la intende come un sistema per farsi mantenere da qualcun altro. Non dico che i poveri siano tutti così, assolutamente, però qualcuno c’è. Allora bisogna cercare di stimolare questo qualcuno affinché capisca che il proprio contributo alla società è dato anche dal lavoro, dal darsi da fare, dal ricercare un’attività che crei ricchezza per sé stesso e per la società, alla quale lui appartiene».

A proposito di famiglie, l’hanno accusata tra le altre cose di aver insultato i gay. Che ne pensa dell’utero in affitto e delle coppie omosessuali che rivendicano il diritto di avere dei figli?

«Intanto rinnego di aver insultato chicchessia. Ho espresso dei pareri, che rimangono nel perimetro del legittimo, di ciò che la nostra legge ci consente. Non ho usato parole volgari, ho usato delle espressioni forti, ma che non possono essere ricondotte arbitrariamente a insulti. Ho una mia idea della famiglia, ritengo che non esista il diritto alla genitorialità. Non esiste né nei sistemi sociali umani, né in natura. La natura non concede diritti alla genitorialità. Anzi, chi si riproduce in natura è un’élite. Lo vediamo negli animali, che si prendono a cornate, a morsi, a zampate per riprodursi. Solo i dominanti ce la fanno, quindi anche in questo caso non esiste un diritto alla genitorialità.

Esiste invece quello che io chiamo il diritto dei figli, ovvero di essere cresciuti, dal mio punto di vista, da chi biologicamente li procrea. E non possiamo trascendere da questa legge, tra virgolette, naturale. So che ci sono delle eccezioni, so che anche nelle famiglie biologiche ci può essere uno dei due genitori che a un certo punto viene a mancare.

[…] Io non sono assolutamente d’accordo sull’utero in affitto, che secondo alcuni è un’espressione volgare e che io chiamo così, senza volerlo essere. Non sono assolutamente d’accordo perché a mio avviso è una sorta di “economia dell’infanzia”. I bambini non si comprano, non si cedono, non si fa tratta di bambini, anche se posso capire che ci sia un desiderio di genitorialità. Mi dispiace, non tutto può essere esaudibile in questo mondo, Io non posso concepire una donna usata come un forno, dove un bambino viene messo e preparato per poi essere ceduto a qualcun altro. È una cosa che io non concepisco.

Però, siamo in una democrazia, siamo in un Paese liberale e io posso esprimere un giudizio. Il giorno che ci sarà una maggioranza che si esprimerà a favore di una libertà totale, a proposito di questo sistema di procreazione, io mi adatterò, come ho fatto sino ad adesso. Non voglio imporre la mia idea a nessuno, però voglio avere la libertà e il diritto di esprimerla».

Ecco, a proposito di libertà, secondo lei non c’è un tentativo di imbavagliare, di impedire l’espressione di alcune opinioni e di condizionare il pensiero? Andiamo verso l’affermazione di un pensiero unico?

«Guardi direttore, mi auguro proprio di no. Anche se, purtroppo, in questo auspicio mi devo anche rendere conto che non è così […] se lei vede le reazioni alla pubblicazione del mio libro, danno concretezza a quello che effettivamente c’è nella nostra società, ovvero che non appena uno esprime delle opinioni, dei pareri su alcuni temi che sono particolarmente sensibili, su alcuni nervi scoperti, si ricorre a tutte le strategie per metterlo da parte. La prima, la censura: provano a toglierti di mezzo. La seconda, togliere la dignità di interlocutore alla persona che parla: gli si dà del fobico, ovvero del malato mentale, perché la fobia è una malattia psichiatrica che si cura con medicine, con trattamenti psichiatrici, con una rieducazione […]».

Eppure l’Occidente ha fatto delle guerre in nome della libertà: siamo andati a esportare la libertà e la democrazia, ancora oggi c’è chi vorrebbe esportare questi valori in Russia…

«Non a caso il mio libro si intitola Il mondo al contrario. Perché questo è il primo paradosso: viviamo all’interno di società in cui i nostri padri, i nostri nonni, i nostri avi hanno combattuto e sono morti per la libertà e la democrazia, e dove invece, piano piano, questi concetti vengono relegati solo in alcuni aspetti. Puoi essere democratico e libero solo entro alcuni limiti. Non ne puoi toccare alcuni punti, perché altrimenti sei scomodo».

Ma quelle guerre lei le condivideva?

«Io le guerre non le condivido mai, perché da militare sono sempre contrario alle guerre. Le guerre, diceva Von Clausewitz, sono la continuazione della politica con altri mezzi, ma fintanto che si può bisogna assolutamente evitarle. Lei mi dice che l’articolo 11 della Costituzione ripudia la guerra. È vero, ma purtroppo la guerra non si elimina con un decreto, con una Costituzione. La guerra esiste e ce lo dimostra quello che sta succedendo a 2.000 chilometri dalle nostre frontiere. Ce lo dimostra il fatto che dal 1945 a oggi ci sono state più guerre che negli ultimi 200 anni prima del 1945. […]

Si vis pacem para bellum, perché altrimenti prima o poi la guerra arriverà fino da noi, se non siamo pronti ad affrontarla. La ripudiamo, la dobbiamo evitare, la dobbiamo rifuggire, dobbiamo sistemare le cose prima che la guerra scoppi, ma la guerra c’è, esiste e secondo me, da militare, esisterà sempre, perché è uno degli strumenti che le società hanno. Brutto, odioso, inaccettabile, però c’è e continuerà a essere utilizzato. Da militare sono il primo pacifista del mondo. Non vorrei mai e poi mai che la nostra bella Italia sia coinvolta direttamente in un’attività bellica, così come non vorrei che nessun altro Paese al mondo lo fosse. La realtà purtroppo è diversa. E allora cosa facciamo? Ci immergiamo in una teoria utopistica o affrontiamo la realtà con gli strumenti che abbiamo?».

[…] vorrei tornare su una frase che mi ha colpito nel suo libro. Lei scrive che in alcune missioni non avete «portato caramelle». Cosa intendeva dire?

«Io sono un soldato e, quando mi muovo, lo faccio con il mio fucile. Quindi, a prescindere da come si vogliano chiamare le operazioni che sono andato a condurre, le sono andato a condurre da militare. Le operazioni, a prescindere da come si vogliono definire, implicano l’uso della forza o l’uso della minaccia dell’uso della forza.

È per questo che si usano le Forze armate e non si usano pompieri o Protezione civile per andare a fare operazioni militari. Non siamo mai andati a portare pagnotte o caramelle, anzi ci siamo presi molte schioppettate. Questa è l’attività dei militari, i militari combattono, non fanno altro. Speriamo di non doverlo fare mai, ma si addestrano, vivono, esistono e lo scopo delle Forze armate è proprio quello: l’uso della forza o la minaccia dell’uso della forza. Altrimenti le Forze armate non avrebbero motivo di esistere».

Secondo lei il fatto di non avere più la leva obbligatoria ha cambiato in meglio o in peggio la società italiana?

«Non le dico se in meglio o in peggio, ma sicuramente l’ha cambiata. La leva costituiva, secondo me, un passaggio da quella che era considerata l’adolescenza e l’età adulta. Una volta, quando il cittadino andava a fare il militare, oltre a imparare tutta una serie di cose, quando tornava a casa era considerato dalla società nella quale lui rientrava un uomo. E si doveva comportare come tale. […]  Quindi sicuramente questo ha portato a un cambiamento nella società moderna. Che sia in meglio o in peggio lo lascio dire agli altri. Credo che questa mia osservazione possa essere condivisa».

Mentre la sentivo parlare mi è venuta una curiosità. Come le è venuto in mente di scrivere questo libro. E soprattutto, si è poi pentito?

«Sicuramente no, non mi sono pentito di aver scritto Il mondo al contrario. Lo rifarei di nuovo, il libro è un frutto del mio intelletto, della mia penna, della mia mano. Ne conosco punti, virgole, punti esclamativi, articoli e singole parole. Quindi sono convinto di non avere offeso nessuno, sono convinto di non aver leso la dignità di alcuno e quindi non vedo perché non dovrei pubblicare una libera manifestazione dei miei pensieri, che può essere condivisa o meno. Rivendico quindi questo mio elaborato e sono tranquillamente propenso a dire che rifarei tutto da capo, senza nessun problema».

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