“Non mi dire che mostrare il corpo è una lotta per l’emancipazione” Paola Ferrari show, prima sbriciola la compagna Elodie, poi ripassa Belen e Ilary Blasi

Giulia Cazzaniga per “La Verità” – Estratti

Dopo le rivelazioni su Rai 1 di Belen Rodriguez a proposito di Stefano Di Martino, Paola Ferrari ha scritto «di getto» su Instagram che «ormai basta una camicia bianca (ben portata) per sembrare una Santa».

La giornalista, già conduttrice della Domenica Sportiva e di 90° Minuto, oltre che dei principali eventi calcistici nostrani per la Rai, ci racconta che con il buonismo ha chiuso da tempo. E pure che sull’esser donna, oggi, si rischia di far molta confusione.

Ma non è che un po’ ci ha preso gusto, nel fare arrabbiare le donne del piccolo schermo?

«Sono forse un po’ impulsiva, spontanea, ecco. Ma le assicuro che molte colleghe quando faccio certe esternazioni poco politically correct poi mi scrivono in privato che la pensano uguale ma temono a dirlo in pubblico».

Che si rischia?

«Critiche fino alla gogna, in tempi di social».

Quel suo post ha conquistato circa mille like, ma pure più di settecento commenti al vetriolo. C’è chi la definisce invidiosa.

«È tanto tempo che non do importanza alle critiche e dico semplicemente quel che penso».

Quando la svolta? O l’ha sempre fatto?

«No, anzi. Negli anni sono stata “bullizzata”, e le virgolette ce le metta. Soprattutto dopo gli Europei me ne dissero di tutti colori. “Vecchia” e “brutta” compresi. È stato pesante, soprattutto perché gli attacchi venivano portati avanti da una certa satira politica di sinistra, che ha ampio spazio sia in televisione che sui giornali e che pare intoccabile. La satira mi piace, però non quando viene usata come libertà di insulto».

Ci ha sofferto?

«Devo confessarle che non sono stata inizialmente benissimo – ma mai vorrei passare per vittima, perché resto grata di quello che ho – finché non ho imparato a lasciare andare e a fregarmene. Sono stata messa alla berlina in modo importante su una sfera personale. E devo anche dirle che mai nessuna voce si è alzata in mia difesa».

Ci fu un monologo sul femminicidio di Paola Cortellesi in cui la si definiva «l’illuminata», e poi si è scritto di una lite…

«No, con Paola ci chiarimmo e fu molto carina. Ho visto il suo film, davvero molto bello e anzi mi spiace che non lo abbiamo prodotto con la Lucisano film, di cui sono socia. Fu Serena Dandini a scrivere quel famoso testo, e mi colpì particolarmente quel “mi fai schifo”, urlato, sul finale. Mi chiedevo: che cosa ho fatto per meritarmi questo sfogo, quando ho sempre cercato di portare avanti il ruolo di donna emancipata in un mondo maschile come quello del calcio, e – può piacere oppure no – l’ho fatto con successo e aprendo la strada anche ad altre donne?».

Che cosa l’ha infastidita del racconto di Belen?

«C’è gran differenza tra essere buoni ed essere buonisti, e questa è la premessa che faccio perché troppo spesso vedo persone che giustificano situazioni in modo facile, scontato, quasi per lavarsene le mani.

Detto questo, i personaggi televisivi hanno fatto un certo tipo di percorso nella vita, e qualunque esso sia – per carità – è sempre legittimo. Ma se metti da sempre in piazza la tua vita privata, tra fidanzati, amanti e mariti di ogni genere, e pure giustamente vivi di immagine e facendoti scattare certe foto, non mi sembra il caso di indossare una camicia bianca e parlare di anoressia e di temi seri e importanti come questo, con le tante ragazze che ci lasciano purtroppo la vita».

Dubita sia vero?

«No, non mi permetterei mai. Sto dicendo semplicemente che si è dato spazio a un racconto che è ben distante dalle vite davvero difficili di tante donne in Italia. Questo è un Paese in cui dimentichiamo tutto molto facilmente. Per me però la vita è fatta di scelte, coerenza, cicatrici».

Anche Ilary Blasi nel documentario Netflix indossa una camicia bianca.

«So come funziona, per esperienza: soprattutto per questo tipo di documentari l’importante è la commercializzazione dell’evento. Lo si fa, se si ha qualcosa da dire. Se ci si è sposati in diretta Sky, non ci si può poi lamentare di avere addosso gli occhi dei media. Però, sarà che sono all’antica, io preferisco che certe cose restino sempre nel privato. Anche perché ci sono i figli, che guardano».

Chissà quante voci, negli anni, nell’ambiente del calcio e della tv, avrà sentito su Totti-Ilary.

«Se ne sentono di tutti i colori su tutti, da sempre. Ai pettegolezzi però io credo sempre poco. Adoro Francesco Totti anche se sono milanista. Erano una bella coppia, e mi dispiace. Un po’ come mi sono dispiaciuta per la fine tra Al Bano e Romina. Ma quello era un altro tipo di dolore. Quella sofferenza che va vissuta in silenzio».

Tra i titoli del web anche «Totti da re di Roma a re del patriarcato».

«Non posso parlare di quella vicenda perché non ne conosco i veri dettagli. Quel che le posso dire è che io ho lottato molto per fare in modo che nell’ultimo mondo restato baluardo dei maschi – quello del calcio – una donna si potesse imporre per la sua bravura, pur essendo bella».

Per cambiare il mondo del pallone?

«Impossibile, resta prepotentemente maschilista. Usa il corpo delle donne, è rimasto così sebbene su tanti altri fronti si sia molto evoluto. Integrazione è la parola d’ordine su tutto. E però poi apri i siti dei quotidiani sportivi e ci trovi sempre la moglie del calciatore “che fa impazzire il web” in costume da bagno, e via dicendo».

È patriarcato?

«Penso si faccia troppa confusione oggi, a porre questa domanda. Bisognerebbe che noi donne – come me, nel mio campo, anche Simona Rolandi, Anna Billò che ha appena lasciato Sky, Monica Vanali e altre bravissime colleghe – imparassimo a farci strada senza scorciatoie. Perché gli uomini non aspettano altro. Prenda Elodie: la trovo meravigliosa, ma non mi può venire a dire che mostrare il suo corpo sia una lotta per l’emancipazione».

Eppure è così che viene proposta.

«Quella battaglia però la abbiamo fatta negli anni Sessanta e Settanta, con la minigonna inventata da Mary Quant e i primi topless. Allora il corpo era strumento per la libertà. Oggi a mostrarlo si entra nel circolo vizioso dell’oggettivazione sessuale, ed è pericoloso. Avrai in cambio più foto, più titoli di giornale, più pubblicità e più guadagni. Legittimo pure questo, ma non lo si confonda con una battaglia per l’emancipazione. Mi si rivolta lo stomaco, quando sento certi ragionamenti. Pensiamo solo a lavorare e impegnarci, e basta».

Con lei si arrabbiò anche Melissa Satta.

«Non capì che la stavo difendendo: detestavo i risolini degli uomini nello studio televisivo ogni volta che lei si toglieva la giacca. Non bisogna prestarsi all’ironia di bassa levatura sul corpo delle donne».

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