Giorgia Meloni sparita dai radar! Per evitare qualunque domanda scomoda si tiene alla larga da tutti i problemi interni, dalla manovra ai migranti passando per Vannacci

Trovata una credibilità internazionale (e mainstream), la premier la coltiva e si tiene alla larga da tutti i problemi interni, dalla manovra ai migranti passando per Vannacci. E il governo latita

Ops, c’è qualcosa che non va se Giorgia Meloni sembra essersi eclissata alla vigilia dell’autunno del nostro scontento. Where is Giorgia? Dove è Giorgia? Disertato il meeting di Rimini, dove lo scorso anno si presentò nei panni dell’underdog (“ho iniziato come cameriera”) col vento in poppa, disertato anche Cernobbio dove andò a rassicurare sull’accettazione dei vincoli esterni (promessa mantenuta) e ad annunciare un profondo programma di riforme (un po’ meno). È come se la premier – evidentemente è una strategia precisa – avesse scelto di separare la sua immagine pubblica dai problemi domestici e dalle brutte notizie. Un po’ come avvenuto, anche nei mesi scorsi, con gli incendi in Sicilia e con tutti i dossier critici, cui ha preferito una ridda di incontri internazionali, circa una trentina, Papa compreso.

In fondo, la scelta disvela una verità oggettiva perché all’estero funziona molto più che in Italia e quel vincolo è il principale elemento cui la premier ha affidato la costruzione della sua leadership. Però: sotto di esso, come sotto il vestito, niente. Il re è nudo. E se l’interrogativo, alla vigilia delle celebrazioni dell’anno primo dell’era Meloni è se sia più “ducetta” o più “draghetta”, la risposta è “compiutamente né l’uno né l’altro”, come sul caso Vannacci, ben gestito dal draghetto Guido Crosetto, ma contestato dai camerati di giornata. Si sarà detta Giorgia Meloni, che ai bei tempi la pensava più o meno come Vannacci: si deve fare come Crosetto ma, per non lasciare praterie a Matteo Salvini, meglio lasciare ululare anche gli altri. Dunque: silenzio.

Lo schema è lo stesso che si è ripetuto sull’immigrazione, con gli sbarchi che hanno raggiunto quota 115mila (il doppio dell’anno scorso) e i sindaci, di ogni colore, sull’orlo dell’esasperazione in un annunciato remake del 2016 quando, prima dell’arrivo al Viminale di Marco Minniti, c’erano in mezza Italia i blocchi stradali per non accogliere i migranti. Incalzata da Salvini su una linea securitaria di chiusura dei porti e ripristino dei famosi decreti sicurezza (l’opposto di quel che ha detto Sergio Mattarella a Rimini) e priva di una politica di governo dei flussi e di accoglienza, si è inventata una specie di time out tecnico col comitato interministeriale di sicurezza affidato ad Alfredo Mantovano. Un classico modo di allungare il brodo con una discussione sul metodo rinviando le scelte sul merito. E intanto gli sbarchi li governa il meteo: se piove rallentano, se c’è il sole aumentano.

Ed è in fondo lo stesso schema delle riforme costituzionali, dove il governo è bloccato perché siccome sono tutti preoccupati di schiantarsi al Sud con l’Autonomia di Roberto Calderoli, in Finanziaria per ora non è stato previsto un euro solo euro sui “livelli essenziali di prestazioni”. Ma Calderoli, che tutto è fuorché sprovveduto, ha capito il gioco e contraccambia bloccando il premierato e tutte le architetture altrettanto strampalate pensate dai vari Stranamore che confondono i poteri del premier con quelli dei sindaci, dimenticando che, a livello comunale, non c’è né il capo dello Stato né la Corte costituzionale. Di questo andazzo la manovra, che apre l’anno elettorale, rischia di essere un amplificatore. Latitano i soldi per tutte le promesse elettorali, dalla Flat tax al Ponte sullo stretto a una politica vera per le famiglie, al massimo si raschierà dal fondo del barile qualcosa per “quota 103”, e intanto non ci sono soldi per la sanità, ce ne sono pochi per la scuola, cresce l’inflazione, l’economia frena e non si può più dare la colpa a “quelli che c’erano prima”.

Amplificatore perché l’accettazione di una posizione compatibile con l’Europa in materia economica è sostenibile se tutto il resto funziona, se invece è tutta una oscillazione tra “vorrei” e “non posso”, la regola diventa l’improvvisazione. Ed è quel che è avvenuto con lo straordinario patatrac sulle banche, anch’esso figlio dell’ossessione meloniana di non farsi scavalcare a destra da Salvini, rispolverando la narrazione degli interessi del popolo contro quelli delle banche. Pas d’ennemis à droit, nessun nemico a destra. La ragione della paralisi è anche questa (e sul Mes sarà uno spettacolo da pop corn). Mettevi comodi però: non c’è nessun Papeete all’orizzonte, Salvini sa che non può permetterselo, ma un’inversione dei ruoli quella sì, eccome, in cui il leader della Lega – è questione di sopravvivenza – si propone come l’alfiere di quel mondo che la premier ha deluso, soprattutto sugli sbarchi. Mondo che Giorgia Meloni, finora, ha rinunciato a portare, con la fatica di un discorso di verità e di costruzione politica, dentro una compiuta cornice di governo ma di cui non può più nemmeno titillare, come una volta, gli istinti della pancia. A quello ci pensano le comparse, da Vannacci e Giambruno. Ma la protagonista, nel dubbio, si eclissa.

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