Di Maio come un cane: il veleno sacrosanto di Travaglio, che si trova Gigino figlioccio di Davos dopo averlo appoggiato una vita

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano”

Il Partito Preso non riesce proprio a trattare il caso Di Maio per quello che è, avendo trascorso gli ultimi 14 anni a scomunicare i 5Stelle senza comprenderli, accecato dal pregiudizio universale.

Chiunque ha visto all’opera Di Maio sa che è fin troppo sveglio, con una gran capacità di imparare e migliorare. È stato un buon leader M5S, un buon vicepremier e ministro del Lavoro e dello Sviluppo nel Conte-1, un buon ministro degli Esteri nel Conte-2 e nel Draghi.

Buono non vuol dire condivisibile: il suo atlantismo acritico, identico a quello di Draghi, Mattarella, Letta&C., non ci piace.

Ma sulla professionalità niente da dire: altro che “bibitaro”, come lo chiamavano i classisti e i razzisti incapaci di riconoscere i meriti dei 5Stelle e convinti che la politica sia un’esclusiva per figli di papà e rampolli di una dozzina di dynasty.

Ora, qualunque cosa dovrà fare nel Golfo, Di Maio la farà con abilità. Ma nelle cancellerie e diplomazie europee ci sono centinaia di figure che potevano farlo. Perché hanno scelto proprio lui, dopo lo 0,6% dei voti al suo partitucolo?

Perché il sistema mafioso chiamato “politica” doveva premiare la sua fedeltà canina ai padroni italiani ed esteri. Guai se chi si immola per l’establishment finisse sul lastrico: nessun altro sarebbe disposto all’estremo sacrificio.

Un anno fa Di Maio fu incaricato di far fuori Conte, unico ostacolo superstite alla normalizzazione draghiana del sistema, già ottenuta con la Lega giorgettiana, FI brunettian-gelminiana, il Pd lettiano, i centrini renzian-calendiani, la finta opposizione meloniana: tanti partiti con nomi diversi e programmi uguali.

Prima provò a scalzare Conte da leader del M5S impallinando – con Giorgetti, Guerini, Renzi e Letta – la Belloni sulla via del Colle (lì doveva salire Draghi o restare Mattarella: tertium non datur).

Ma, malgrado gli amorevoli consigli di Draghi a Grillo, Conte restò leader. E costrinse il governo a rinviare al 2028 l’aumento della spesa militare al 2% del Pil, promesso alla Nato entro il ’24.

Allora Di Maio, con l’avallo dei suoi spiriti guida al Quirinale, a Palazzo Chigi e al Nazareno, scatenò la scissione di 66 parlamentari dai 5Stelle. Si illudeva di rafforzare Draghi e se stesso e di indebolire Conte.

Accadde l’opposto. Draghi optò per l’harakiri e incolpò il M5S, convinto – nella sua hybris – che gli elettori avrebbero punito Conte e premiato Di Maio, candidato dal Pd insieme ai suoi fedelissimi.

Accadde l’opposto.

Punito dal basso, Di Maio viene ora premiato dall’alto: si scrive Borrell, ma si legge Draghi, Quirinale, Nato e vecchio Pd.
Ma adesso chi dovrebbe allarmarsi è il nuovo Pd: ove mai Elly Schlein si ricordi chi è e cambi musica, un Di Maio pidino da far esplodere e poi risarcire si trova sempre.

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