di Luigi Bisignani per Il Tempo
Il Quirinale può attendere. Da perfetto studente dai gesuiti il premier Mario Draghi ha messo il cappello sulla conferma di Sergio Mattarella al Colle. Pensare che è stato proprio lui, da Palazzo Chigi, a provocare questo caos, dopo aver tentato per mesi di scappare al Quirinale e, pur di realizzare il suo disegno, a piegare il Governo alla sua ambizione.
Sono due le date indiziarie del suo fallito tentativo di fuga da Piazza Colonna: il 23 settembre, quando in una riunione collegiale con i suoi ministri “migliori” ha capito che i progetti del Pnrr non sarebbero mai andati in porto, e il 27 ottobre quando, infastidito e risentito, ha abbandonato platealmente l’incontro con i sindacati. In entrambe le circostanze ha capito che quel lavoro non era fatto più per lui. Può parlare con Biden, certo, ma non con Landini.
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Paese fermo
La sua lunga campagna elettorale ha, da quel momento, focalizzato il Governo sull’ascesa del premier, trascurando così i problemi del Paese e pensando, addirittura, di poter indicare non solo il suo successore a Palazzo Chigi, ma che quest’ultimo potesse essere il modesto ministro Franco, soprannominato da molti ‘Alexa’. I ministri tecnici, e soprattutto quelli di Forza Italia (Gelmini, Carfagna, Brunetta), sono stati più impegnati a farsi amico il futuro presidente della Repubblica che ad affrontare i problemi veri e ricordarsi della propria storia politica. Ognuno di loro ha cercato di piazzare in posti chiave tanti piccoli Bocchieri, oscuro dipendente della Regione Lombardia. Del Pnrr, Draghi ha disegnato la cornice, ha stabilito la governance, ma nessuno può negare che, a parte i progetti pronti da anni di Fs e Anas, tutto sia fermo.
I ministeri sono impallati da strutture “deprofessionalizzate”. Qualche tempo fa, in una riunione di verifica un direttore generale di lungo corso è sbottato: “Guardate qui. Voi che dovete controllarci siete in quindici, noi che dobbiamo scrivere bandi e decreti siamo in tre”. Così non si può certamente andare avanti: il ministro Cingolani, per fare un esempio, si muove ancora da responsabile della ricerca di Leonardo, un’azienda che dipende molto dal capo delle Forze Armate, e anche per questo ha preferito tenere il mantello a Draghi piuttosto che affrontare con interventi concreti il problema strutturale dell’energia elettrica.
Si è preferito buttare 8 miliardi nel populistico ed inutile sostegno alle famiglie bisognose, funzionale solo ad ottenere i titoli dei giornali, anziché fare investimenti sul lato dell’offerta. Colao si è autosommerso, attento a non scontentare nessuno con le sue scelte, ha scritto gare per il Pnrr di impossibile comprensione e partecipazione e ha rimandato ogni decisione sugli assetti di Tim e sulla rete unica. Anzi, ora sta addirittura pensando a chi dare la colpa tra Invitalia e Infratel, quando le cervellotiche gare sulla fibra inevitabilmente andranno a vuoto.
Mentre Giancarlo Giorgetti medita la fuga, il ministro Giovannini ha nominato l’ex Dg di Bankitalia, Salvatore Rossi, coordinatore della commissione che dovrà redigere il nuovo Piano generale dei trasporti e della logistica. Il Mef è ormai diventato una succursale dell’ufficio del professor Francesco Giavazzi, la cui luce avvolge gli amici degli amici del premier e arriva sino agli stretti collaboratori, si dice che la combriccola del Mef vicina al capo di gabinetto Chinè non gestisca le partecipazioni nelle aziende di Stato, ma se ne senta quasi proprietaria.
Si narra poi che l’amministratore delegato di Mps, Bastianini, sia stato convocato a via XX Settembre ed abbia trovato ad attenderlo, per chiedergli le dimissioni, un vero e proprio plotone di esecuzione composto dal Dg del Tesoro Rivera, il capo di Gabinetto Chinè e il fido Giansante. Motivazione? Nessuna. Colpevole solo di aver portato la banca in utile ma, soprattutto, di essere stato indicato dal Governo Conte. Insomma, non appartiene alla schiera degli eletti del Supremo in caduta libera dal Colle. E pensare che Rivera aveva detto circa un mese prima alla commissione Finanze della Camera: “Non ci sono piani per rimuovere l’Ad di Mps”.
Lo scontro Meloni-Tajani
Ma peggio di Draghi si è comportato il centrodestra. Ne è immagine plastica lo scontro di venerdì notte tra Giorgia Meloni, con una ritrovata vis dei tempi del Fronte della Gioventù, e Antonio Tajani, allora giovane monarchico, che per non prendersi a pugni sono stati separati dai testimoni. Mentre, alla domanda: “Esiste il centrodestra?” la risposta di Ignazio La Russa è stata eloquente: “Ma quale centrodestra?” e rappresenta il disastro provocato da una classe dirigente totalmente inadeguata rispetto ad un popolo che è ancora maggioranza nel Paese. Una guerra fratricida sotterranea da mesi, con tante piccole Ronzulli, oggi deflagrata alla luce del sole che ha bruciato in una folle corsa quelle poche personalità di centrodestra credibili anche a livello internazionale da mettere in campo.
Il mancato reale appoggio a Berlusconi; la corsa della Meloni a creare difficoltà a Salvini anziché puntare ad un risultato comune, come dimostra il non aver tentato, almeno per un altro giro, la candidatura di un galantuomo liberale come Guido Crosetto; l’aver imposto di contarsi realmente sulla Casellati; il capo della Lega che, correndo dietro al diavolo e all’acqua santa, ha dimostrato di non avere né strategia né capacità di leadership. Un centrodestra, dunque, che può dire addio al sogno del Quirinale. Ma visto che da ogni male può venire un bene, forse è l’occasione perché nasca un “nuovo centro” con quel che resta di Forza Italia, con Renzi e con gli altri gruppi centristi.
Quanto a Draghi, speriamo che ritorni a fare veramente il Super Mario della prima ora perché lui, e solo lui, ancora oggi è l’unico vero argine fisico che ci è rimasto contro lo spread e per mettere ordine ai fondi del Pnrr totalmente in rotta di collisione con l’Europa. Per finire, viva Mattarella: bene, bravo, bis. Tomasi di Lampedusa, con il suo Gattopardo, sarebbe davvero fiero di lui.