Ma non era Putin quello malato? La feccia criminale del Pentagono, dopo la sua lucidissima intervista con Tucker Carlson inizia a farsi delle domande su come possa Biden, rintronato come una campana, un domani, intavolare una trattativa con il Presidente russo

Estratto dell’articolo di Federico Rampini per www.corriere.it

Forse non è un caso che Vladimir Putin abbia scelto questo momento per farsi intervistare da un giornalista americano e trumpiano, Tucker Carlson, e lanciare la proposta di un negoziato diretto Russia-America per risolvere il conflitto in Ucraina. A parte tutte le altre riserve su una trattativa fra le superpotenze che taglierebbe fuori l’Ucraina stessa, sacrificando una nazione che da due anni soffre e combatte per la propria libertà…

A parte questo (e non è poco), fa paura immaginare quel tavolo: con Putin da una parte e dall’altra un anziano signore smemorato, che confonde persone date luoghi… a rappresentare la prima superpotenza mondiale, l’Occidente, il “mondo libero”?

Le ultime notizie sullo stato di salute di Biden sono peggio che allarmanti. […] Biden è sempre stato famoso per le sue gaffe, però di recente diventano più frequenti, più gravi e imbarazzanti: dice di aver parlato col presidente francese Mitterrand (morto nel 1996) anziché con Macron, scambia Kohl con la Merkel o con Scholz (chissà in queste ore con quale nome sta rivolgendosi all’attuale cancelliere tedesco in visita alla Casa Bianca), dice Messico quando vorrebbe dire Egitto, eccetera.

Ha suscitato scalpore la decisione di non concedere un’intervista televisiva alla Cbs in occasione della “partitissima” del Super Bowl, rinunciando a una enorme audience – diciamo l’equivalente di Sanremo o di una finale dei Mondiali – tale è il timore del suo staff che lui straparli e si faccia del male.

La mazzata più recente è venuta dalla conclusione dell’indagine sulla sua indebita appropriazione di documenti top secret, ritrovati nel garage di casa sua. L’inquirente Robert Hur nominato dal Dipartimento di Giustizia – cioè dalla stessa Amministrazione Biden – ha escluso la colpevolezza del presidente. Ma lo ha fatto in modo infamante, quasi dichiarandolo incapace d’intendere e di volere.

Nel rapporto finale in cui l’inquirente decide di non incriminarlo, Biden viene descritto come un vecchio che non riesce più a ricordare neppure in quali anni era vicepresidente, o la data della morte del suo figlio prediletto, Beau.

Tutto ciò accade mentre la Corte suprema sembra decisa a impedire che singoli Stati (come il Colorado) cancellino Donald Trump dalle schede elettorali in quanto ineleggibile. Al momento le prospettive di una rielezione di Trump sembrano in aumento, per effetto di questi ultimi sviluppi, anche se può succedere di tutto. Nel frattempo il fatto stesso che Trump si senta più vicino alla vittoria, rende il partito repubblicano sempre più succube di lui.

Una conseguenza concreta la vediamo al Congresso dove prevale nella destra la strategia del «tanto peggio tanto meglio». Eravamo vicini a un compromesso bipartisan per rendere molto più stringenti i controlli alla frontiera e bloccare gran parte dell’afflusso di migranti clandestini.

I repubblicani – che pure vogliono limitare quegli ingressi – hanno preferito far saltare quell’accordo, per adesso. Per la semplice ragione che il caos alla frontiera provocato dal lassismo democratico è uno dei più forti argomenti di Trump nei comizi da qui a novembre. Il fatto che sull’immigrazione i democratici siano finalmente entrati in una fase di pentimento e ravvedimento operoso sui loro errori passati, dovrebbe indurre a far passare leggi nuove al più presto, nell’interesse nazionale. Ma l’interesse elettorale di Trump è quello di far marcire la situazione finché arriverà lui alla Casa Bianca.

Una situazione così tremenda dal punto di vista domestico e internazionale obbliga a porsi delle domande fondamentali, di due ordini. Una di tipo costituzionale, l’altra politica.

La prima: è mai possibile che la più antica liberaldemocrazia del mondo non abbia un meccanismo per costringere il presidente a farsi da parte se ci sono fondati dubbi sulla sua salute mentale? Qui non si tratta di abbracciare un “razzismo anti-anziani”: io ho 67 anni, ho una mamma novantenne, e non scherzo su queste cose. Ma la barra della lucidità e dell’efficienza mentale per il presidente degli Stati Uniti deve essere spostata molto più in alto che per noi persone normali: lui ha la valigetta nucleare, lui è il comandante supremo delle forze armate più potenti del mondo. Certo è circondato e consigliato da uno staff esperto, certo ci sono procedure costellate di controlli di sicurezza e garanzie prima che il presidente possa scatenare un attacco nucleare, però l’ultima parola spetta a lui.

La seconda domanda, di ordine politico: cosa diavolo succede dentro il partito democratico, come può incassare senza reagire le notizie sempre più inquietanti su Biden?

La prima domanda rinvia al 25esimo emendamento della Costituzione. Fu adottato nel 1965, due anni dopo l’attentato mortale a John Kennedy, poi ratificato nel 1967. L’attentato a Kennedy il 22 novembre 1963 – quando il presidente era rimasto per qualche ora tra la vita e la morte, sotto i ferri del chirurgo – aveva evidenziato i limiti delle procedure normali di passaggio dei poteri al vicepresidente. Il presidente poteva essere esautorato mentre era ancora vivo? La Costituzione e i precedenti non offrivano risposte sufficientemente chiare né procedure veloci e limpide. D’altronde la questione di un capo dell’esecutivo “incapacitato” si era già posta nel periodo finale delle presidenze di Woodrow Wilson e Franklin Roosevelt.

Il 25esimo emendamento stabilisce una procedura, anzi due: in un caso il passaggio dei poteri è avviato dal presidente stesso; nell’altro il presidente non può o non vuole e ad avviare la procedura è il suo vice con l’accordo di altri esponenti dell’esecutivo o «altre istituzioni designate dal Congresso». Questa seconda procedura è assai complicata; inoltre il Congresso non ha mai legiferato in materia per cui rimane una zona d’ombra.

Questo ci lascia in una situazione tremenda, che io descriverei in termini brutali: o Biden si lascia convincere (da chi?) a farsi da parte, oppure esautorarlo è quasi simile a organizzare un “colpo di Stato democratico”, con la vicepresidente Kamala Harris a raccogliere firme tra i suoi ministri dietro le spalle di Biden. Una sorta di impeachment dall’interno.

La questione politica chiama in causa il partito democratico e il suo stato di salute attuale. Senza arrivare a destituire il presidente in carica prima della fine del suo mandato (gennaio 2025), l’alternativa è che il suo stesso partito decida di non ri-candidarlo. Questo sarebbe meno traumatico: sopportiamo un presidente in declino mentale per 11 mesi e non un giorno di più.

Certo, non esistono precedenti. Quando un presidente si è candidato al secondo mandato, il suo partito non ha mai osato scavalcarlo e sostituirlo. Però «non esistono precedenti» neanche di uno che si ricandida a 81 anni e dando segni di confusione mentale. I problemi del partito democratico in questa fase non si possono ricondurre semplicemente al rispetto delle tradizioni.

Io ne vedo almeno tre. Primo: non esiste più un vero establishment di partito, i vecchi notabili di una volta che potevano “complottare” e decidere nel chiuso di una stanza; sicché per mettere Biden con le spalle al muro e convincerlo a non ricandidarsi spesso viene invocato un intervento della moglie Jill. Il futuro del “mondo libero” è appeso al buonsenso della First Lady? Con tutto il rispetto, è insensato.

Secondo problema per il partito: far fuori Biden adesso significa ammettere platealmente che “abbiamo sbagliato”. Visto che la sua decadenza mentale non è accaduta all’improvviso, “abbiamo sbagliato” per esempio nel lasciargli il comando del Pentagono e la valigetta nucleare nel bel mezzo di crisi mondiali come Ucraina e Gaza; quindi cancellare contro la sua volontà la ri-candidatura di Biden è un regalo alla propaganda repubblicana.

Terzo problema per i democratici: senza Biden scoppierebbe una lotta per la successione ben più disordinata e fratricida che nel 2020, uno spettacolo di divisione al cui confronto il partito repubblicano è quasi coeso. […]

Questo ci lascia nella situazione assurda per cui, al momento, i cittadini della più antica liberaldemocrazia mondiale per la massima carica della Repubblica hanno la scelta fra “un deficiente e un delinquente”: due aggettivi offensivi che non riflettono necessariamente il mio pensiero, ma descrivono come le due Americhe percepiscono la candidatura dell’avversario.

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