Non potremo nemmeno vestirci come ci pare! Dopo pesca e agricoltura, i padroni di Davos intendono eliminare l’industria tessile. Questo farneticante articolo la dice lunga sui loro piani

Ridurre gli acquisti è l’unico modo per arginare una sovrapproduzione che rischia di far collassare il pianeta. E poi serve scegliere meglio. E anche nel mondo del fashion tanti stilisti puntano sulla sostenibilità

Sorvolando alcune coste africane o asiatiche lo sguardo viene catturato da immense dune colorate che si infrangono nella luce dell’orizzonte per poi precipitare negli oceani. Da lontano appaiono belle e maestose, da vicino sono montagne di stracci che fanno venire i brividi. Le fibre naturali impiegheranno decenni per decomporsi, quelle sintetiche e artificiali non sono smaltibili.

Probabilmente quando nei primi del Novecento l’Ente Moda, a fronte della scarsità di materie prime utilizzate a scopi bellici o dai costi esagerati, invitava alla sperimentazione di materiali sintetici, mai avrebbe immaginato un disastro ambientale di simili proporzioni. Alle donne era stato imposto di “non comprare” per sopperire ad una crisi economica, oggi dovremmo andare nella stessa direzione per arginare una sovrapproduzione che rischia di far collassare il pianeta.

Non è emergenza da lasciare alla libera iniziativa dei singoli, ma la sensibilità di tanti insieme potrebbe provocare un cambiamento significativo. «Non è imparando a fare vestiti che li si fa bene, far moda e creare la moda non è lo stesso… la moda non esiste solo nei vestiti… è nell’aria e nel vento che la porta», diceva Coco Chanel e sembra proprio che le nuove generazioni che operano nel tessile e dei couturier abbiano introiettato questo concetto fino a spingerli ad inventare tecniche produttive che a volte hanno davvero dell’incredibile.

Le frontiere del fashion si spingono da un lato verso l’idea di vestibilità sostenibile e facilità di smaltimento e dall’altro verso l’abito come opera d’arte, da ammirare, indossare e sorprendentemente far evaporare.

Non importa a quali latitudini siano nati questi talenti, il leit motiv è una passerella rivoluzionaria alla quale forse non siamo ancora pronti, ma che coniuga lusso e biodegradabilità in assoluto equilibrio.

Eva Heugenhauser ha studiato in Germania, è una modellista specializzata, come un architetto, progetta prima di disegnare. C’è una ricerca filologica sulla caducità del tempo alla base delle sue creazioni, una ricerca sulla teoria del valore e dell’interpretazione critica del concetto di tempo. In quest’ottica è ovvio chiedersi -come ha fatto Eva – se ha più valore qualcosa di longevo o di effimero. L’alta moda dovrebbe conservarsi nel tempo o le è concesso dissolversi?

Così è nato l’innovativo biotessile cotto con gelatina e glicerina, materiale biodegradabile al 100 per cento, che si disgrega quando viene versato in acqua calda.

Nella stessa prospettiva, Mata Durokovic, in arte MADbyMAD, designer slovacca, che sfida se stessa e gli stereotipi introducendo il concetto di realtà virtuale, di effetti tridimensionali e creando pellami in cristallo commestibile. Il suo motto è “Cucinalo! Indossalo! Mangialo! Vitalizza le piante con esso!”.

Esperimenti iniziati nella sua cucina e conclusi in laboratorio, modelli ispirati alla cinematografia, come nel caso di Matrix, figure evanescenti dai colori pastello; la sua creazione più recente, il Crystal Bird richiama il metaverso, i viaggi spaziali, dove ognuno è libero di muoversi a modo suo senza confini né barriere.

Nel suo atelier di Berlino Natascha Von Hirschhausen punta a prodotti più commerciali, non pezzi unici ma ripetibili. Fast fashion di alta qualità che introduce una nuova tecnica a zero rifiuti. Questo è reso possibile dall’utilizzo di un cartamodello che evita sprechi e che permette di realizzare anche capi drappeggiati, lavorati a maglia o con curve incorporate che consentono una vestibilità perfetta adattabile a qualsiasi forma, che valorizzi la persona al di là della taglia o dell’età. Una visione pratica della moda, fondata su un concetto olistico sostenibile totalmente rivolta al principio del Waste Less Future.

Natascha è una pioniera del bel vestire ma senza eccessi e con filati naturali, capi pensati e realizzati nell’ottica dell’economia circolare, nati pensando al riciclo, esattamente come a Prato da qualche anno opera l’azienda Rifò, guidata dal giovane manager Niccolò Cipriani.

Già il nome ci introduce nel suo mondo, in fiorentino “lo rifò” significa lo rifaccio, come facevano i cenciaioli una volta. Niccolò non nasce come designer o imprenditore, ma come funzionario delle Nazioni Unite in Vietnam, dove subito si rende conto del grande pericolo provocato dalla sovrapproduzione.

Con un piccolo gruppo di collaboratori riesce a mettere in piedi un’azienda tessile 100 per cento ecosostenibile i cui prodotti saranno a loro volta 100 per cento riciclabili. «Oggi la difficoltà è mettere insieme cenci che abbiano filati di qualità, ci sono molti scarti nel riciclo, la lana può essere riciclata anche più volte, non così per il cotone. Riusciamo a filare un maglione 100 per cento lana riciclata mentre per il cotone la metà è filato vergine, questo perché ogni fibra ha un valore e una resistenza all’usura diverse. I tessuti che non possono essere riciclati li trasformiamo in un feltro spesso da utilizzare come packaging per le spedizioni dell’e-commerce. Insomma, ce la mettiamo tutta per promuovere un’economia alternativa al fast fashion e al fast luxury coordinando una filiera che ci consente di produrre capi monomaterici ecosostenibili. Concept recuperato da una tradizione antica che trasposta nell’industria diventa fruibile da tutti. Però ci tengo a sottolineare che spesso si cade nell’equivoco che riciclo equivale a sostenibilità. Non è solo questo, vanno ridotti i consumi a livello globale, altrimenti non ci salveremo più».

Quale che sia la rivoluzione, se guardare avanti o tornare indietro, forse abbiamo dato tutto troppo per scontato, pensavamo che il futuro avrebbe fatto tutto da solo, «invece no, bisogna inventarselo».

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