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di Diego Fusaro per Il Giornale d’Italia
Su “Vanity Fair” è uscito nei giorni scorsi un incredibile articolo nel quale si prende di mira la nota pellicola natalizia “Una poltrona per due”.
Così leggiamo nel titolo: “Ma è il caso di proiettare una commedia così controversa?”. Incuriositi, ci domandiamo che cosa ci possa mai essere di controverso in una pellicola che di fatto è ormai un classico di Natale, fruibile da tutte le generazioni. Ce lo spiega in termini surreali il seguito dell’articolo: “Razzismo, «N-word», blackface, donne rappresentate come oggetti“.
Insomma, possiamo ben dire, a questo punto, che nessuno è più al sicuro rispetto alle mire nichilistiche della cosiddetta cancel culture: traduzione consigliata non già “cultura della cancellazione”, bensì “cancellazione della cultura“.
Nel ripugnante fenomeno della cancel culture si esprime perfettamente il nichilismo dell’epoca del dominio assoluto della forma merce: la forma merce si fonda sul nulla, poiché non ha cultura e identità, ma solo illimitata circolazione e infinita autovalorizzazione del valore.
Per questo, unendo le grammatiche di Nietzsche con quelle di Marx, possiamo ragionevolmente sostenere che Dio muore al mercato, ossia nel trionfo totale e totalitario della forma merce quale oggi si sta registrando nella civiltà tecnocapitalistica.
Di ciò la cancel culture è espressione: nel suo movimento generale, essa aspira a cancellare il passato e a riscrivere la storia orwellianamente sul fondamento dei gusti e delle sensibilità del presente, con un vero e proprio imperialismo del presente rispetto al passato. Con la sintassi del filosofo Roger Scruton, si potrebbe con diritto parlare di oikofobia, ossia di odio dell’Occidente per la propria provenienza e per le proprie radici: in maniera non differente, già da tempo parliamo espressamente di uccidente, con ciò alludendo alla pulsione distruttiva e autodistruttiva di una civiltà, la nostra, che sta tramontando in forme palesemente non serie, come tra l’altro dimostra anche questa pur secondaria vicenda dell’attacco alla pellicola “Una poltrona per due”.
Di commedie così baldanzose e vorticose nel ritmo, così spudoratamente divertenti nel rappresentare l’odiosità dei ricchi e la semplicità dei poveri, non se ne fanno più da tempo
di davide Turrini per Il Fatto Quotidiano
Tra dirty pleasure, cult e oramai classico di Natale, Una poltrona per due si ripresenta beffardo e insuperabile nelle sale italiane il 9, 10 e 11 dicembre. Non è dato realmente sapere quanto il film diretto da John Landis nel 1983 abbia racimolato nei recenti passaggi tv in altri paesi occidentali. In Italia, si sa, è una miniera d’oro di share, spettatori e trend di Google da una ventina d’anni a questa parte. La prova cinema per 72 ore – distribuisce Adler, versione 4k – sarà un banco di prova curioso.
Intanto perché di commedie così baldanzose e vorticose nel ritmo, così spudoratamente divertenti nel rappresentare l’odiosità dei ricchi e la semplicità dei poveri, non se ne fanno più da tempo. Guardandola dall’ottica italiana, Una poltrona per due poteva essere un’idea, un plot, alla Risi o alla Monicelli. I due anziani miliardari wasp della costa est, i fratelli Duke (Don Ameche e Ralph Bellamy), scommettono un dollaro (!) su uno scambio forzato di persona per confermare o meno i loro due differenti assunti filosofici: l’ambiente crea e fa l’uomo (socialismo, vi dice qualcosa?) o è il talento di ciascuno a creare la propria fortuna (iperliberismo please).
Le vittime dell’esperimento “scientifico” sono il loro pupillo, l’altezzoso, bianco broker Louis Winthorpe III (Dan Aykroyd) e il mendicante guascone finto storpio nero Billie Ray Valentine (Eddie Murphy). I due vecchietti sono deliziosamente perfidi e disumani nello spogliare Louis dai soldi agli affetti, come di far piovere improvvisamente addosso tutto il suo ben di dio, compreso maggiordomo e Jacuzzi, su Billie Ray. Landis a suo agio con robusti ed estremi stereotipi (i neri, i nazi, i bianchi snob, i dropout) si ispira ironicamente alla poetica di Frank Capra e Preston Sturges, ma fa qualcosa di più. Impone, proprio nella fraternità impossibile tra Louis e Billie Ray, la prostituta Ofelia (Jamie Lee Curtis) e il maggiordomo Coleman (Denholm Elliott), una soluzione molto comunitaria modello New Deal: distrugge i potenti sfruttatori criminali in Borsa (oggi sono e sarebbero drammaturgicamente venerati maestri di vita ndr) e mostrare la gioiosità della convivenza senza distinzioni classiste.
Poi è chiaro Una poltrona per due può essere studiato anche solo per come un regista, autore, creatore come John Landis – mai troppo esaltato per il grande genio che è (stato) – faccia respirare nei suoi film (The Blues Brothers, Un lupo mannaro americano a Londra) un’aria di totale libertà compositiva, di giocosa distruttività di tempi, spazi, certezze narrative. Recentemente abbiamo scoperto che in pieno delirio cancel culture la scena in cui l’infido uomo dei Duke, colui che attua il piano di trasformazione delle vite di Louis e Billie Ray, corrompendo addirittura le forze dell’ordine, viene incastrato e punito da due protagonisti finendo rinchiuso una gabbia dove un ubriaco gorilla (con il costume e mascherone finto ed esibito come tale) lo sodomizza, è stata contestata come offensiva verso la comunità Lgbtq+. Idem per Aykroyd travestito da giamaicano con lucido da scarpe nero in viso e dreadlocks mancante di sensibilità verso la comunità afroamericana. Difficile capire se chi rivaluta ogni due per tre il passato decontestualizzando dettagli e senso del presente dell’epoca sia capace di studiare il significato culturale e simbolico di determinate scelte narrative senza far sentire in colpa chi ne ride e le apprezza. A questi ayatollah moralisti il Landis dell’epoca avrebbe fatto una sonora pernacchia.
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