Odiano Musk perché X/Twitter non è più il loro giocattolo esclusivo
In principio era il regno dei progressisti. E andava tutto bene. Ma poi… Ecco la vera storia della battaglia per il controllo della narrazione sui social
di Publius Valerius per il blog di Nicola Porro
Ci vuole una gran disonestà intellettuale per (fare finta di) accorgersi soltanto adesso che il mondo dei social media non è neutrale rispetto alla politica: serviva Elon Musk per costringere i commentatori di mezzo mondo a dire questa verità lapalissiana. È servito Musk non perché egli abbia fatto cose eclatanti ma perché, molto più semplicemente, ha rotto il monopolio della sinistra sul controllo dei social e permesso ai non progressisti di essere più sereni nel manifestare il proprio pensiero online.
I primi “padroni” dei social
Facciamo qualche passettino indietro: agli albori di Facebook, il primo vero fenomeno social di portata globale, questo nuovo mezzo di comunicazione disintermediato – o almeno così appariva – fu ritenuto addirittura l’elemento chiave che portò Barack Obama prima alla vittoria delle primarie democratiche e poi della presidenza degli Stati Uniti: per alcuni anni, la sinistra ne ha avuto pressoché il monopolio, anche per incapacità di utilizzo da parte dei suoi avversari, e ciò si è visto sia negli Stati Uniti sia in Europa.
Guardando all’Italia, il social network come strumento politico massivo è stato impiegato in prima battuta dai meetup grillini e ciò che poi ne è scaturito, ovvero il Movimento 5 Stelle, e da un allora rampante politico di centrosinistra che fece di necessità virtù visto che tutto il partito ufficiale e annesso circo mediatico lo avversavano apertamente: Matteo Renzi. Facebook, Twitter e Instagram restavano un qualcosa di lontano per i non progressisti, ancorati ai vecchi schemi e mezzi di comunicazione: il massimo fu Angelino Alfano che si portò un ipad nello studio di Ballarò twittando in diretta dalla trasmissione.
Il sorpasso della destra
Questa situazione di monopolio del mezzo crolla dal 2015 in poi: il mondo non progressista prende dimestichezza con il mondo social e impara bene e in fretta le principali tecniche e strategie per creare contenuti sempre più penetranti e in grado di orientare il dibattito pubblico. La viralità di post, infografiche, meme non è più a solo appannaggio della sinistra, anzi ormai sono gli altri a padroneggiare molto meglio i social e saper creare le onde da cavalcare: ciò accade su tutti i social network meno uno, Twitter, che il mondo progressista non smetterà di considerare sempre e comunque “cosa sua”.
Il primo tentativo di riprendere il controllo
Ad ogni modo, l’egemonia culturale della sinistra sui social finisce attorno a quell’anno lì e, non a caso, è in quegli anni che suddetto mondo elabora tre concetti interconnessi fra loro che sono “post-truth”, “fake news” e “fact checking”: dietro il nobile intento di combattere la disinformazione, si nascondeva il tentativo di riprendersi la narrazione online sostenendo che ci fosse bisogno di un arbitro e al contempo applicando metri di arbitraggio alla Byron Moreno.
Agli “analfabeti funzionali” – altro termine del loro glossario guarda caso spuntato fuori dopo il 2015 – va spiegato che il memino indignato che hanno condiviso sul loro profilo è una balla e per farlo c’è un tizio predisposto a spiegare agli “analfabeti funzionali” perché sono tali: nasce così il debunker. Nel giro di poco, diventa chiaro a tutti quelli in grado di vedere che i debunker, in media, non sono neutrali ma giocano per una parte: scelgono in maniera arbitraria cosa è da verificare e cosa invece no, hanno criteri di valutazione propri, con il risultato che nella gran parte delle volte questa pratica colpisce i non progressisti e il gioco viene rapidamente scoperto.
Il primo tentativo di riprendersi il controllo della narrazione online fallisce miseramente e a certificarlo ci sono i due risultati elettorali più clamorosi degli almeno ultimi cinquant’anni: Brexit e la vittoria di Donald Trump, maturate nonostante l’impegno dei media tradizionali nel sostenere Remain e Hillary, affiancati dai debunker di professione a presidiare il web (chissà perché nessuno di loro, né nel 2016 né negli anni a venire, si è mai preoccupato di debunkare la bufala del dossier Russiagate su Trump montata da Hillary).
Relativamente a casa nostra, il fallimento della strategia fatta di accuse di creduloneria agli utenti e impiego di “certificatori di verità” di professione è reso lampante dalle elezioni politiche del 2018 da cui il Movimento 5 Stelle esce come primo partito d’Italia e Matteo Salvini come politico più popolare.
Salto di qualità: le presidenziali 2020
La battaglia sui social era perduta, e al mondo progressista non rimase che una cosa da fare: alzare il tiro e arrivare alla censura. Fatte le prove generali durante la pandemia, il salto di qualità lo si ebbe durante le elezioni presidenziali americane del 2020: le piattaforme adottarono ufficialmente i fact-checker al punto da mettere in piedi delle task force interne e arrivarono a condizionare gli stessi codici informatici su cui poggiano le piattaforme al fine di favorire un candidato e azzoppare l’altro.
E lo fecero in maniera sfacciata: si spinsero al punto da censurare una notizia del New York Post su Hunter Biden, il figlio di Joe Biden, molto dannosa per la sua campagna, negando la possibilità di condivisione, bollandola come falsa, anzi come propaganda russa – e addirittura Twitter arrivò a bannare il quotidiano dalla piattaforma. Non paghi, una volta certi che Donald Trump fosse fuori dalla Casa Bianca, decisero di spegnere la sua voce sui social con l’accusa di aver orchestrato l’assalto a Capitol Hill per tentare un colpo di stato, fomentando violenza e odio.
Ricordiamo che giusto l’estate precedente i social network non fecero assolutamente nulla per bloccare le manifestazioni (quelle sì!) di violenza e odio provenienti dal movimento Black Lives Matter, che mise a ferro e fuoco le metropoli di mezza America – anzi i vertici dei social coccolarono quel movimento.
Di più: quando l’area trumpiana provò a radunarsi su una piattaforma alternativa (Parler, per chi non la ricordasse), avendo fiutato l’aria di censura conseguente alla cacciata di Trump, quella piattaforma fu silenziata da Big Tech, con Amazon che rescisse il contratto per i server e Google che fece sparire l’app dal Play Store. Per riprendere il controllo della narrazione social, alla fine, fu necessario l’intervento diretto dei vertici di quei social, tutti o quasi di orientamento progressista.
L’arrivo di Musk
Arriviamo così ai giorni nostri: mentre l’Ue cerca di istituire una legislazione potenzialmente censoria dei social, Elon Musk acquisisce Twitter, gli cambia nome in X, licenzia circa l’80 per cento dei dipendenti e avvia una clamorosa operazione trasparenza svelando cosa è stato fatto negli anni 2019-2021 in termini di censura dal vecchio management: vengono pubblicati i cosiddetti Twitter Files (Atlantico Quotidiano ve ne ha ampiamente parlato, qui disponibili tutti i pezzi sul tema).
Avevano ragione i complottisti veri e presunti: non erano solo teorie più o meno verosimili, la censura era vera, regolarmente eseguita all’interno di Twitter, ed è ragionevole immaginare meccanismi analoghi anche per le altre piattaforme. La precedente policy sui contenuti viene cestinata e Musk decide di riammettere Donald Trump su X, anche se l’ex presidente Usa non lo avrebbe più frequentato più fino allo scorso lunedì.
E qui torniamo al punto: X è considerato il social che più fa opinione fra la gente che conta o comunque con una qualche visibilità pubblica ed è per questo che il mondo progressista lo ama(va?) così tanto. Con l’acquisizione, lo sputtanamento delle attività censorie e la conseguente revisione di policy e riammissione di Trump, è come se Musk avesse tolto loro il giocattolo preferito: X non è più cosa loro, quella piazza pubblica in cui se la cantano e se la suonano e si autocompiacciono. E questo a Musk non può essere perdonato, anche se Elon è stato loro affine fino ad un secondo prima.
Quando Elon era adorato
Bisogna tenere a mente, infatti, che Musk era adorato dai progressisti fino a che non ha acquistato Twitter: ammette candidamente di fumare marijuana, ha avuto figli mediante utero in affitto, è uno dei personaggi più in vista della Silicon Valley da più di vent’anni, è stato il primo a buttarsi convintamente nel business dell’auto elettrica. Tutto questo è dimenticato, si è macchiato della colpa più grave: aver abbattuto quel muro compatto di Big Tech attorno al mondo progressista, aver ripristinato con la sua azione un po’ di neutralità e garantito il free speech.
La ragione principale per la quale i commentatori che il giorno successivo all’ospitata di Donald Trump sullo spazio X di Musk non sono credibili, quando non addirittura in malafede, è proprio questa: non si sono accorti che i social media non sono neutrali, ma si sono accorti che il loro social preferito non è più un avamposto progressista, a meno che nella loro mente la neutralità coincida con le opinioni liberal e progressiste.
Musk non ha portato l’estremismo sui social, non ha fomentato l’odio e le rivolte come invece si affannano a sostenere governo britannico e Commissione europea, ha semplicemente ridato voce in uno spazio social a chi secondo loro non doveva averne. Che lo stia facendo per fatto personale o per amore della libertà di parola e pensiero – altro che interessi economici: i progressisti, da buoni imbevuti di marxismo, vedono sempre tutto in termini di struttura e sovrastruttura – poco cambia: non si può non avere riconoscenza per chi ha deciso di rendere un po’ più regolare e disponibile per tutti una delle principali arene online, nonostante le enormi pressioni cui è e sarà sottoposto nei mesi a venire.
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