Nazismo rosso al Salone del libro, Giampiero Mughini si scaglia contro la feccia rossa impartendo una sacrosanta lezione di come si contesta in maniera civle

di Giampiero Mughini per Dagospia.com

Caro Dago, data la mia veneranda età ho una qual certa esperienza di chiacchiere in pubblico, e questo a partire dai primissimi anni Sessanta, da quando si era appena spenta l’eco delle fucilate del luglio 1960 che uccisero dei civili a Reggio Emilia e a Catania, la città in cui sono nato.

Ebbene ti confesso che a vedere le facce le espressioni il furore del drappello di visitatrici del Salone del libro di Torino che si sono scagliati contro il ministro Eugenia Roccella, sto piuttosto dalla parte del ministro. Non delle sue idee, che non sono le mie, ma dell’atteggiamento con cui ha accolto le offese che le venivano fatte a voce alta e rauca.

A furia di offese a voce alta e rauca, era questo il modo in cui ci affrontavamo nelle assemblee dei primi Sessanta noi “di sinistra” e loro “i fascisti”. Tra noi era odio odio odio e soltanto odio, e ne verranno i terroristi dell’una e dell’altra sponda che insanguineranno le piazze e le strade italiane dei Settanta. Così come ricordo con gioia le prime volte che alcuni di noi e alcuni di loro prendemmo a confrontarci civilmente. Mi rammento di Marco Tarchi, di Stenio Solinas, di Giuseppe Del Ninno. Ne abbiamo fatto da allora di cammino in direzione della civiltà, del fatto che si possono avere idee e valutazioni diverse ma che non per questo ci si debba scannare.

Piuttosto mi ricordo di una serata degli anni Settanta per me triste al Circolo culturale Mondoperaio allora presieduto dal mio amico Paolo Flores d’Arcais. Era una serata dedicata al seguente argomento: se nei gruppi terroristici le donne fossero più garbate degli uomini quando c’era da scegliere le maniere forti. A quel dibattito erano state invitate quattro o cinque donne, tutte di valore. Paolo volle che fossi io a rappresentare la voce maschile.

LA COMPLICITA’ DEL DIRETTORE DEL SALONE DEL LIBRO (VIDEO)

Lo feci al modo mio solito, senza cercare nemmeno per un attimo di essere piacione. E dunque dissi papale papale che quanto ai gruppi terroristici le donne vi si comportavano con la stessa ferocia degli uomini, né più né meno. Adriana Faranda (più tardi divenuta una mia cara amica) non c’era a via Fani, ma non era stata meno impetuosa in un assassinio all’università di Roma. Né al tempo in cui erano due criminali politici (oggi sono anch’essi dei miei cari amici) Francesca Mambro era più “morbida” di Giusva Fioravanti. Sì e no avevo parlato cinque minuti, quando la platea femminile insorse a volermi togliere la parola.

Nessuna delle donne sedute accanto a me bisbigliò che mi lasciassero parlare salvo poi esprimere le loro idee diverse dalla mia. Le forsennate in sala non ne volevano sapere. Non potevano uccidermi, quello no, ma azzittirmi quello sì. Lasciai perdere, e non dissi più una parola ed è stata la sola e unica volta nella mia vita: che non potessi far uso delle parole. Avevo per quelle signore furibonde solo disprezzo intellettuale, e ce l’ho a tutt’oggi per tutti i forsennati che intendono il confronto delle opinioni alla maniera di uno scontro pugilistico. Di uno scontro in cui l’avversario lo devi lasciare esanime sul tappeto

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