La Russa e la strage di Via Rasella: la sinistra insorge gridando vergogna, ma non dimentichiamo che i partigiani rossi che compirono l’attentato non lavoravano per la democrazia, ma per la vecchia Unione Sovietica

di Corrado Ocone per il blog di Nicola Porro

Che Ignazio La Russa non conosca le doti della diplomazia politica, è risaputo: è la sua forza o il suo limite, a seconda dei punti di vista. In questa sede però si vogliono fare altri due tipi di ragionamento: uno di merito, l’altro di metodo. Cominciamo dal merito. L’attentato compiuto in via Rasella dai Gap romani, una formazione partigiana che rispondeva ai comunisti, a cui fece seguito l’efferata rappresaglia nazista delle Fosse Ardeatine, è da sempre oggetto di controversie e discussioni storiografiche e anche politiche (Marco Pannella, ad esempio, sollevò la questione nel corso degli anni Settanta). Gli occupanti avevano infatti avvertito che, per ognuno di loro che fosse morto a causa di un attentato terroristico in città, dieci italiani (italiani non partigiani) sarebbero stati portati alla fucilazione. Il che avvenne puntualmente.

Si era ovviamente in piena guerra, ma le domande che subito si posero furono molteplici: quello compiuto dai partigiani era un atto importante ai fini della lotta in corso? Cosa si voleva dimostrare? Cosa lo giustificava? Non era giusto porsi il problema delle conseguenze e commisurare alla luce di esse gli eventuali vantaggi dell’azione terroristica? Perché gli autori e i mandanti, da veri eroi, non si denunciarono e autocostituirono dopo l’attentato, salvando la vita ai loro connazionali (non tutti partigiani in quanto gli uomini destinati alla fucilazione furono scelti dai nazisti senza distinzione nelle prigioni e dieci di loro financo presi a caso per la strada). Sono domande a cui non è lecito dare una risposta definitiva, né è facile giudicare moralisticamente certi comportamenti.

Così come mai si dovrebbe dimenticare che, come ha sottolineato La Russa, i partigiani comunisti non combattevano i nazifascisti per instaurare la democrazia e la libertà repubblicane, come la retorica vincente dice ancora oggi, ma un regime totalitario altrettanto criminale del nazista sul modello sovietico. Non si può perciò impedire agli storici e alle menti pensanti di continuare la loro ricerca e anche di manifestare dubbi e perplessità.

I totem ideologici non fanno parte né della scienza e né della democrazia, che seppur con i suoi tempi è destinata a distruggerli uno ad uno con la forza della ragione. E qui sorge la questione di metodo: è proprio necessario che, a più di tre quarti di secolo da quelle vicende, la nostra democrazia, forte e solida, non si possa porre certe domande e cercare, col contributo di tutti, una verità “vera” e non “ufficiale” solo perché vidimata da enti certificatori di indubbia parzialità come l’Anpi? E non dovrebbe proprio una festività come il 25 aprile, che anche quest’anno ci accingiamo a celebrare, stimolare una riflessione libera e un’operazione di verità oggi più che mai essenziale. Credo che lo dobbiamo a tutti gli italiani, ma soprattutto a quelli che combatterono onestamente e con sincerità per la nostra libertà.

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