editoriale di Tommaso Cerno su L’Identita’
Scusate se non credo più a Babbo Natale. E se dalle istituzioni pretendo qualche spiegazione in più di quella che si dà ai bambini quando arriva il regalo atteso da tanto tempo. Quello che mi domando è se davvero gli italiani abbiano ottenuto, insieme a un arresto importante ed eclatante, anche le risposte alle domande che viene spontaneo porsi. Di fronte a una faccia senza camuffamenti. A un falso nome che ricorda un ex ministro. A un vistoso montone alla Briatore. A un Rolex da 35mila. E perfino a una montatura di occhiali identica a quella che ha sempre portato. Una specie di Joker di Batman arrestato di fronte al mondo mentre scende a piedi la scalinata di un ospedale dove in mezzo a medici, infermieri, pazienti si sta curando il cancro da mesi e mesi e si è perfino operato sotto anestesia. Senza che nessuno si domandasse da dove diavolo venisse il signor Bonafede.
Un arresto che era stato annunciato senza sollevare attenzione. Un arresto che ci mostra come lo Stato da una parte non abbia rinunciato, ma dall’altra sia arrivato così bene a segno solo quando, forse, catturare il Boss moribondo non serviva più se non a lui stesso.
E proprio nel paese in cui il capitolo della trattativa fra Stato e mafia non si è mai scritto fino in fondo, nel paese in cui troppi sono ancora i dubbi sui legami che la criminalità ha avuto con chi governava, in diversi momenti della storia di questa Repubblica. Mi auguro che finiti i bagordi per l’operazione, a qualcuno venga in mente che è necessario aggiungere qualche spiegazione in più a quanto avvenuto. Prima di tutto a quanto avvenuto ieri a Palermo. E poi a quanto avvenuto in questi ultimi 30 anni. Domande su cui il procuratore di Palermo De Lucia ha promesso che indagherà. Perché se questo Paese meritava molto prima l’arresto del capo della mafia, sicuramente non è possibile accettare che Matteo Messina Denaro possa lasciare questo mondo, malato com’è, senza prima ottenere ogni dettaglio e chiarimento su cosa abbia fatto davvero quest’uomo durante la sua mitologica latitanza, su come si sia arrivati a lui, sul modo in cui siamo riusciti a trovarlo proprio lì dove è sempre stato e dove era logico trovarlo, se non fossimo un Paese a rovescio. Senza avere sgombrato ogni dubbio, insomma, sul fatto che noi, lo Stato, quelli giusti, quelli onesti, l’abbiamo sempre avuto come nemico e quindi come obiettivo. E non che lui arriva a noi quando a deciderlo magari non siamo noi. Ma un giorno di gennaio, dopo l’ennesima terapia per il cancro magari andata male quando questo vecchio signore con la stessa faccia di sempre cammina per i corridoi di un ospedale nel centro di Palermo come se davvero non fosse Matteo il boss ma Andrea Bonafede, lo stravagante nome che si è scelto, in questo travestimento che non avrebbe potuto ingannare nemmeno un bambino, consegnandosi nelle mani di uno Stato festante. Lo stesso Stato che da trent’anni è a caccia dei colpevoli delle stragi che hanno cambiato la Storia d’Italia con il sacrificio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E che oggi va dicendo al mondo di averlo sconfitto. Se non lo deve a tutti noi, lo deve certamente a loro due.
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