Giorgia Meloni e la sacrosanta tirata d’orecchie ai pennivendoli di regime: “Sono una persona che pretende rispetto”

Estratto dell’articolo di Carmelo Lopapa per “la Repubblica”

Ti guarda fisso negli occhi e dice: «Io voglio restare me stessa. Non voglio cambiare, soprattutto non voglio che la gente pensi che non sia più la persona in cui ha creduto finora. Solo perché ora è diventata presidente del Consiglio». Parco dei Principi, tardo pomeriggio. Giorgia Meloni ha appena terminato il suo intervento ai Med Dialogues dove ha incontrato il presidente del Niger, Mohamed Bazoum.

Giacca rossa, capelli raccolti. Si ferma qualche minuto a parlare di sé, prima di entrare in auto e continuare a inseguire i ritmi frenetici che la nuova vita da qualche settimana le impone, sabato incluso. Se c’è una paura, una sola paura che attraversa lo sguardo della premier, a quaranta giorni dallo storico insediamento della prima donna a Palazzo Chigi, ecco, è proprio questa: perdere “Giorgia”. Quella che è sempre stata.

Che poi è la ragione, racconta, per la quale può accadere di perdere le staffe in conferenza stampa. Come è accaduto nell’ultima di qualche giorno fa. «Ho risposto a tono», ammette con la schiettezza che la contraddistingue anche adesso. «Esattamente come sarebbe accaduto sei mesi fa o sei anni fa: perché se c’è una cosa che mi fa perdere la pazienza è la mancanza di rispetto. Io sono orgogliosa di quel che ho fatto nella vita, di come ho costruito il mio percorso dal nulla e non sopporto coloro che ironizzano e pensano di avere a che fare con la ragazzina alla quale poter sempre insegnare qualcosa e da trascinare di tanto in tanto nel fango, basta tirarla giù ed è fatta. Io non mi faccio tirare giù, non lo permetterò a nessuno».

Dovrà farci l’abitudine alle domande incalzanti dei giornalisti, adesso è il capo del governo, e dovrà reagire con maggiore controllo, le viene fatto notare. «E no, perché questa è la narrazione che vorreste far passare voi: io non sono nervosa, non sono stressata per il nuovo incarico, io sono soltanto una persona che fa il suo lavoro e che pretende rispetto. E se c’è qualcosa che non mi sta bene la dico, la dirò, come ho fatto sempre».

Giorgia Meloni del resto non sarà mai Mario Draghi né vuole esserlo, pur nutrendo profondo rispetto e anche stima personale per l’ex presidente della Bce che ha lasciato Palazzo Chigi dopo averle consegnato la campanella il 22 ottobre. In queste ultime settimane dell’anno è il Pnrr il dossier in cima alla pila che già sovrasta la scrivania della neopremier. Il lascito politico più importante ricevuto da chi ha lavorato alla Presidenza prima di lei.

«Col mio predecessore ho dialogato con grande profitto nella fase di transizione, sono al servizio delle istituzioni e non criticherò mai chi ha ricoperto la carica fino a poche settimane fa — è la premessa — Ma è un dato incontrovertibile che dei 55 obiettivi da centrare entro fine anno a noi ne sono stati lasciati trenta. Sono fiduciosa che recupereremo, Raffaele Fitto (ministro per gli Affari europei, ndr) sta portando avanti un ottimo lavoro e bene ha fatto a suonare la sveglia a tutti i centri di spesa. Detto questo, se qualcosa mancasse all’appello non sarebbe colpa nostra. Sarà inevitabile piuttosto nel 2023 cambiare qualcosa per rendere più celere e più fluida la capacità di utilizzo dei fondi». […]

La legge di bilancio non è un risultato acquisito, ci saranno ancora settimane di confronto e scontro parlamentare. Soprattutto, c’è da scommetterci, sulle limitazioni che lei e il suo governo hanno deciso di imporre al Reddito di cittadinanza. In 660 mila (abili al lavoro) non lo potranno più percepire dopo i primi otto mesi del 2023. «Siamo arrivati al paradosso che multinazionali impegnate nella posa di fibre ottiche in Italia devono selezionare e assumere lavoratori immigrati perché pare non si trovi manodopera italiana. Ma come? Con le centinaia di migliaia di beneficiari del sussidio in cerca di un lavoro?», è la domanda retorica che si pone la presidente del Consiglio.

«Io penso che a queste persone vadano proposti lavori come questo, perché parliamo di assunzioni fatte sulla base di contratti collettivi nazionali, con stipendi dignitosi e tutte le tutele del caso. E certo puoi anche rifiutare, ma in quel caso non puoi pretendere che a mantenerti sia lo Stato, quindi il beneficiario del reddito decade. È un problema culturale. Deve cambiare il modo di pensare di molti».

Su questo punto Meloni non arretra. Non è una battaglia, «è una questione di principio: non si può dire “se la Meloni ci toglie il reddito ci manda a rubare”, perché tra le due opzioni c’è il lavoro ed è la mia opzione. Cosa diversa sono le persone che abili al lavoro invece non sono e tutte le categorie fragili che continueremo a tutelare».

Diventa una questione «culturale», per non dire identitaria, anche la battaglia agli scafisti e al «traffico di vite umane», come da sempre il centrodestra definisce il fenomeno della migrazione. Bene venga allora il decreto flussi per regolarizzare almeno una parte degli ingressi e favorire la formazione al lavoro, una disciplina che valga per almeno due o tre anni, come anticipato dal ministro degli Esteri Antonio Tajani nell’intervista di venerdì a Repubblica.

«Il problema è semplice, l’Europa come andiamo dicendo da tempo, deve farsi carico del problema perché l’Italia non può più accettare che la selezione la facciano gli scafisti — insiste la premier — In Francia non è così. A Macron, col qual ci siamo scambiati dei messaggi dopo la tragedia di Ischia (non si sono sentiti, dunque, come era stato rivelato in un primo momento, ndr), l’ho anche detto. I 38 migranti accolti Oltralpe non risolvono il problema. Del resto loro, come i tedeschi e altri, possono davvero decidere alla frontiera chi ha requisiti e chi no all’ingresso, chi può essere utile come manodopera per le aziende e chi no. Da noi, ripeto, la selezione via mare la fanno i trafficanti che gestiscono i barconi. Non è più accettabile» […]

Il cellulare squilla senza sosta. È ora di rientrare, forse. A giorni tornerà a lavorare a tempo pieno a Palazzo Chigi. Con una novità. Prima donna, prima svolta senza precedenti alla Presidenza del Consiglio: è stata silenziata la campanella. Già, quella che da sempre suona ogni qual volta il capo del governo fa il suo ingresso a Palazzo e ne esce, squillando dunque più volte al giorno. «Un tantino invadente», chiosa lei sorridente, gelosissima della sua privacy anche nel nuovo ruolo.

Ma è falso che non voglia restare a Chigi per una sorta di insofferenza al luogo. «Semplicemente in queste prime settimane sono in corso lavori di ristrutturazione che erano già stati deliberati prima di me e dunque lavoro e ricevo persone nel mio vecchio studio di Montecitorio al gruppo di Fratelli d’Italia, che per altro adoro. Tra gli interventi di ristrutturazione degli uffici a Chigi è prevista anche la rimozione delle pareti di quella pomposa stoffa gialla già tolta in gran parte del Palazzo. Avremo uffici più sobri che rendono meglio l’idea». È tempo di restyling, non solo politico.

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