C’è un sentimento diffuso nel popolo della sinistra, per molti anche inconfessabile: invidiare Giorgia Meloni alla destra. Non le posizioni di Meloni, ovviamente. Nemmeno il fatto che abbia vinto le elezioni, casomai come le ha vinte. L’invidia è questa: per l’evidente, sincera preoccupazione di Meloni di non perdere mai il contatto con la comunità politica che ne ha espresso la leadership. Meloni ha aggiustato la linea su alcune questioni che rischiavano di crearle problemi, ma è stata ben attenta a non rompere mai, né in campagna elettorale e meno ancora negli anni precedenti, la connessione emotiva con la base del suo elettorato.

Un’ansia così urgente da spingerla anche su posizioni inaccettabili, diciamo pure scandalose, come nella sua farisaica ricostruzione della storia della nazione e del suo partito. Meloni che nel suo discorso alla Camera cita l’antifascismo solo per bollarlo come assassino, killer di “ragazzi innocenti”, compie una volgare opera di revisionismo e mistificazione di cui è chiara la finalità, parlare ai suoi – dire: sono qui ma non sono cambiata – preservare il senso di alterità della comunità missina nella quale si è formata. L’autopercezione di sé stessi come cristiani perseguitati nelle catacombe per il coraggio delle proprie idee è un tratto fondante (e autoingannevole) della destra neo o postfascista nata sulle ceneri della Repubblica sociale, arrivato intatto fino agli anni Novanta, quando Meloni ragazzina si riuniva nel rudere di Colle Oppio a Roma insieme ai camerati della sua corrente del Msi-An, i Gabbiani, molti dei quali oggi al governo insieme a lei. Non era egotismo, il riferimento alla sua vicenda personale in quel discorso. Era rimarcare che lei, a Palazzo Chigi, ci è arrivata grazie alle sue idee e più ancora nonostante le sue idee, nonostante cioè abbia sempre rinunciato ad abiurarle, rivendicandole pure nel momento solenne in cui tutti si aspettavano una svolta, un’apertura, magari anche solo una concessione ipocrita.

Del resto, la presidente del Consiglio lo aveva detto chiaro pochi giorni prima delle elezioni, ospite di un programma di quello che sarebbe diventato il suo ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano: “Questa vittoria è il riscatto di chi per decenni ha dovuto abbassare la testa”. Non si riferiva certo in generale agli elettori del centrodestra, che negli scorsi decenni ha governato eccome, e con lo stesso partito di Meloni in maggioranza. Si riferiva ai missini. Alla sua comunità di reduci. Quando dice “non tradiremo”, è a loro che parla. Quando esprime simpatia per i giovani che andranno in piazza contro di lei, vera o fasulla che sia, sta sottolineando che quella è la sua storia: dalla piazza a Palazzo Chigi, senza scorciatoie.

La visione storiografica di Meloni è un male per il Paese. Lo vedono bene tutti coloro che temono il suo governo anche per la perversa opera di riscrittura del passato che cercherà di fare. Molti dei detrattori, però, non possono non apprezzare il disegno di una parabola dove domina la politica, l’appartenenza, il rispetto delle radici anziché la ricerca del compromesso tecnocratico, del papa straniero, delle alchimie da laboratorio come quella che ha cercato di trasformare un accidentale esperienza di governo tra Pd e M5S in una formula politica indegnamente spacciata per “nuovo centrosinistra”.

Attenzione a non equivocare: l’invidia per Meloni non è una speculare domanda di estremismo, ammesso e non concesso che Meloni oggi possa essere considerata estremista. Non è quella mera richiesta di svolta a sinistra invocata da una parte dell’opinione pubblica o da quei partitini che sostengono di praticarla già e raccolgono lo zero virgola nelle urne. Quello che manca a molti elettori della sinistra è una leadership con il coraggio delle idee e la credibilità per portarle avanti. Manca un capo o una capa capace al contempo di perseguire i propri disegni personali e tenerli ancorati a un percorso, un sentimento, una condivisione.

Oggi, in vista del congresso, è chiaro che il vecchio gruppo dirigente del Pd potrebbe prendere qualsiasi direzione – peronista, centrista, laburista – ma sarebbe comunque tutto letto come mossa tattica, perché da un certo punto in avanti nessuno di quei dirigenti ha dimostrato di sapere badare ad altro che all’autoconservazione di una nomenclatura, per non parlare di chi, come Matteo Renzi, ha praticamente dedicato l’intero mandato da segretario a picconare il rapporto con la propria base, senza peraltro riuscire nel frattempo a catturare quella altrui.

C’è una critica a Meloni molto significativa dello stato di cose, l’ha pronunciata la deputata dem Lia Quartapelle: “Meloni – ha detto Quartapelle – ha fatto un discorso da ragazza di parte della Garbatella anziché da presidente del Consiglio”. Tradisce purtroppo l’idea, coltivata più o meno consapevolmente in questi anni a sinistra, che il presidente del Consiglio sia una sorta di giudice di pace, di garante di equilibri, di santino da parabrezza. Forse invece, da anni, il problema del Pd è proprio l’opposto di quello che Quartapelle rimprovera a Meloni: un partito pieno di figure che saprebbero pronunciare grandi e levigati discorsi da presidente del Consiglio e senza nessuno che saprebbe o potrebbe farlo da ragazzo di parte di Cernusco sul Naviglio o da ragazza di parte di Eboli.