MILANO – Le banche d’affari stanno già facendo i conti con il nuovo governo che uscirà vincitore dalle elezioni di domenica prossima. Partono da un assunto, la coalizione di destra viene vista come vincitrice, e dalla constatazione che la prospettiva di un cambio di maggioranza ha già prodotto un effetto negativo: ha fatto aumentare l’incertezza – aggravata dagli spettri di recessione – e di conseguenza fatto salire lo spread con i titoli tedeschi, rispetto ai 200 punti precedenti alle prime fibrillazioni del governo Draghi.

Cruciale l’agenda Draghi

Ma nei report sull’Italia che in questi giorni distribuiscono ai clienti, i grandi nomi della finanza internazionale, che con le loro decisioni spostano migliaia di miliardi di dollari, delineano anche uno scenario peggiore: nel caso un governo Meloni dovesse virare in maniera decisa dall’agenda Draghi, lo spread potrebbe salire ben oltre i 300 punti base.

I big della finanza, abituati a far di conto senza troppe sottigliezze politiche, puntano il dito su due elementi critici: da un lato le tante promesse elettorali della coalizione di destra, che potrebbero far esplodere i conti pubblici e mettere in dubbio la sostenibilità del debito italiano; dall’altro, i rischi sull’attuazione del Pnrr, considerato il grande volàno della crescita ma destinato a essere rimesso in discussione, nelle dichiarazioni della leader di Fratelli d’Italia.

Nessun deficit di bilancio aggiuntivo

L’inversione a “U” sui due capisaldi del governo Draghi – non fare ulteriore deficit di bilancio e attuare le riforme legate ai fondi comunitari – viene considerata dagli analisti il vero pericolo all’orizzonte: un mix di occasioni mancate e di conti pubblici fuori controllo, destinato a far guardare con cautela all’Italia.

Per la svizzera Ubs l’aumento attuale dello spread, che da un mese ondeggia tra 225 e 240 punti base, è una reazione normale: potrebbe salire fino a quota 250-260 in attesa dell’insediamento del nuovo governo: «Solo se la recessione dovesse essere peggiore delle attese, o il debito dovesse aumentare per nuovi tagli alle tasse- scrive Matteo Ramenghi, capo degli investimenti – potrebbe allargarsi maggiormente».

Anche Goldman Sachs scommette su una vittoria del centrodestra, ma avverte: bisognerà aspettare l’insediamento del governo per capire chi saranno i ministri chiave, e quali saranno le priorità dell’agenda economica e del budget per il 2023.

Un potenziale di 30-70 miliardi

Morale, solo verso fine anno si saprà quali delle tante proposte annunciate dalla coalizione verrà considerata prioritaria nella nuova agenda politica, e che tipo di coperture verranno previste per finanziarle. Barclays stima che se Fdl, la Lega e Forza Italia mantenessero le tante promesse fatte in campagna elettorale, potrebbe esserci bisogno di 30-70 miliardi di euro, che dovrebbero essere necessariamente finanziati a debito. «Stiamo parlando di un esborso pari all’1,5-3% del Pil – fanno notare – ci aspettiamo quindi un ulteriore deterioramento del rapporto deficit/pil a partire dal 2023».

Le promesse di un taglio alle tasse in un contesto di inflazione-recessione preoccupano anche Société Générale, secondo cui l’incognita maggiore è capire se e come Giorgia Meloni proseguirà nel lavoro impostato dal governo Draghi. «Se il Pnrr fosse interamente implementato – scrive Yvan Mamalet, economista per l’Europa  – potrebbe rilanciare la crescita del Pil dello 0,6% in dieci anni, ma anche ridurre il debito pubblico di 12 punti percentuali, una svolta che ridurrebbe la curva dello spread di 100 punti base».

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Le incognite sullo spread

SocGen calcola che i fondi del Next Generation Eu rappresentano l’1% del Pil entro il 2025, e Barclays teme che questo sarà il primo punto a essere disatteso dal futuro governo. Ogni rinvio del Pnrr e taglio delle tasse ridurrebbe la sostenibilità del debito tricolore.

È lo scenario peggiore, che secondo le banche d’affari oltre a deprimere i corsi della Borsa di Milano potrebbe riportare lo spread oltre la soglia psicologica di 300 punti base. Valore toccato solo brevemente nel 2018, durante il governo gialloverde 5Stelle – Lega, e sfondato oltre dieci anni fa, quando in piena crisi dell’eurozona il differenziale esplose quasi fino ai 600 punti base.