“Vogliono fare la guerra a Russia e Cina senza alcuna idea di come tutto ciò andrà a finire” Kissinger, la durissima accusa alla feccia rossa che ha in mano il Pentagono grazie alla vittoria di Biden

Testo di Laura Secor pubblicato da La Stampa

A novantanove anni, Henry Kissinger ha appena pubblicato il suo diciannovesimo libro intitolato Leadership: Six Studies in World Strategy. Si tratta di un’analisi della visione e dei successi storici di un pantheon quanto mai diversificato di leader del secondo Dopoguerra: Konrad Adenauer, Charles De Gaulle, Richard Nixon, Anwar Sadat, Lee Kuan-Yew e Margaret Thatcher.

Nel suo ufficio di Midtown Manhattan, in una soffocante giornata estiva, Kissinger mi racconta che negli anni Cinquanta, «prima di impegnarmi in politica, mi riproponevo di scrivere un libro sul processo di pace e la fine della pace nel XIX secolo, a cominciare dal Congresso di Vienna. Poco alla volta ho iniziato a scriverlo e mi sono ritrovato con un terzo del libro dedicato a Bismarck. Avrebbe dovuto concludersi con lo scoppio della Prima guerra mondiale». Il suo ultimo libro, ha aggiunto, «è una specie di continuazione di quello, non è soltanto una riflessione sui nostri tempi».

Tutti i sei personaggi politici delineati in Leadership, dice l’ex segretario di Stato, furono influenzati da quella che lui chiama la “Seconda guerra dei Trent’ anni”, il periodo compreso tra il 1914 e il 1945 che contribuì a plasmare il mondo che sarebbe venuto dopo. Dagli anni Cinquanta, quando era uno studioso di Harvard che scriveva di strategia nucleare, Kissinger ha sempre concepito la diplomazia come un’azione di equilibrio tra le grandi potenze ottenebrata dalla possibilità di una catastrofe nucleare. Nella sua ottica, il potenziale apocalittico della moderna tecnologia delle armi fa del mantenimento dell’equilibrio tra potenze ostili – per quanto sia un’operazione assai difficile – un imperativo categorico superiore nelle relazioni internazionali.

«Dal mio punto di vista, l’equilibrio ha due componenti primarie – conferma -. Il primo è l’equilibrio di potere, con l’accettazione della legittimità di valori talvolta contrastanti. Infatti, se credi che il fine ultimo di ogni tua azione debba essere l’imposizione dei tuoi valori, allora l’equilibrio secondo me diventa impossibile. Quindi il primo è una sorta di equilibrio assoluto». L’altro, prosegue, «è l’equilibrio nei comportamenti, il che significa che esistono limiti all’esercizio delle proprie competenze e del proprio potere in relazione a ciò che è indispensabile all’equilibrio complessivo». Ottenere un connubio perfetto esige «una capacità quasi artistica».

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Kissinger ammette che l’equilibrio, per quanto indispensabile, di per sé non è un valore.

«Possono verificarsi situazioni nelle quali la convivenza è moralmente impossibile», osserva. «Per esempio, è il caso di Hitler. Con Hitler era del tutto inutile discutere di equilibrio, anche se provo qualche simpatia per Chamberlain se pensò di dover guadagnare tempo in vista di una prova di forza che egli supponeva inevitabile in ogni caso». Da Leadership trapela in parte la speranza di Kissinger che gli statisti americani contemporanei riescano a fare proprie le lezioni dei loro predecessori. «Penso che questo periodo sia caratterizzato da notevoli difficoltà a decidere la direzione da imboccare», ribadisce: «Si reagisce in modo istintivo all’emozione del momento».

Gli americani sono riluttanti a separare l’idea di diplomazia dal concetto di fondo della “relazione personale con l’avversario”. Tendono, insomma, a considerare i negoziati – mi dice – in termini missionari, più che psicologici, cercando di convertire o di condannare i loro interlocutori invece di approfondirne e capirne la mentalità.

Kissinger pensa che il mondo di oggi stia rasentando i limiti di uno squilibrio pericoloso.

«Siamo sull’orlo di una guerra con la Russia e la Cina per questioni che in parte abbiamo creato noi stessi, senza nessuna idea precisa di come andrà a finire o di dove dovrebbe portarci», sottolinea. Gli Stati Uniti sarebbero in grado di gestire i due avversari con una sorta di triangolazione, come accadde durante gli anni di Nixon? Risponde senza offrire una soluzione semplice: «Adesso è impossibile dire se riusciremo a dividerli e a far sì che diventino avversari tra loro. Tutto quello che possiamo fare è non acuire le tensioni, è creare possibilità. Per questo è indispensabile avere in mente una finalità precisa». In merito a Taiwan, Kissinger teme che gli Stati Uniti e la Cina stiano manovrando verso una crisi e consiglia fermezza da parte di Washington. «La politica attuata da entrambi le parti ha prodotto e consentito a Taiwan di progredire diventando un’entità democratica autonoma e ha mantenuto la pace tra Cina e Stati Uniti per mezzo secolo – osserva -. Si dovrebbe essere molto prudenti, di conseguenza, in relazione a qualsiasi azione in grado di modificare la struttura di base».

Kissinger ha sfiorato la controversia all’inizio di quest’anno lasciando intendere che le incaute politiche da parte di Stati Uniti e Nato avrebbero provocato la crisi in Ucraina.

Non vede alternative: è indispensabile prendere sul serio le preoccupazioni per la sicurezza espresse da Vladimir Putin, e crede che per la Nato sia stato un errore lanciare all’Ucraina il segnale che avrebbe potuto entrare a far parte dell’Alleanza.

«La Polonia – e tutti i Paesi tradizionali occidentali che hanno fatto parte della Storia dell’Occidente – apparteneva logicamente alla Nato», spiega. L’Ucraina, invece, dal suo punto di vista è un insieme di territori che un tempo erano collegati alla Russia, che i russi consideravano di loro proprietà, anche se per “alcuni ucraini” non era così. Si renderebbe dunque un servizio migliore alla stabilità agendo da cuscinetto tampone tra la Russia e l’Occidente: «Ero favorevole alla piena indipendenza dell’Ucraina, ma ho pensato che per lei sarebbe meglio un ruolo simile a quello della Finlandia».

In ogni caso, aggiunge Kissinger, il dado ormai è tratto. Dopo il comportamento della Russia in Ucraina, «adesso penso che, in un modo o in un altro, formalmente o informalmente, alla fine di tutto questo l’Ucraina debba essere trattata alla stregua di un membro della Nato». Eppure, Kissinger pronostica un’intesa che preservi le conquiste russe risalenti alla sua incursione iniziale del 2014, quando ci fu l’annessione della Crimea e di alcune zone nella regione del Donbass, per quanto non sappia rispondere con precisione alla domanda di come tale intesa possa differire dal patto che otto anni fa non riuscì a stabilizzare il conflitto.

La pretesa morale posta dalla democrazia e dall’indipendenza dell’Ucraina – dal 2014, ampie maggioranze si sono dette favorevoli all’adesione all’Ue e alla Nato – e il cupo destino della sua popolazione sotto l’occupazione russa si inseriscono in modo maldestro nell’arte di governo di Kissinger. Se il bene superiore è scongiurare un conflitto nucleare, che cosa si deve ai piccoli Stati il cui unico ruolo nell’equilibrio globale è subire le decisioni di quelli più grandi? «Capire come coniugare la nostra potenza militare con le nostre finalità strategiche», riflette Kissinger a voce alta, «e come mettere in relazione queste con i nostri obiettivi morali è un problema ancora irrisolto».

Ripensando alla sua lunga carriera, spesso controversa, tuttavia, non si concede autocritiche. Quando gli chiedo se ha rimpianti riguardo agli anni in cui era in carica, risponde: «Da un punto di vista manipolativo, dovrei imparare a dare una risposta di peso a questa domanda, perché mi viene rivolta sempre». Tuttavia, nel complesso, «se anche modificassi alcuni punti tattici di secondaria importanza», dice, «non mi assillo a pensare a cosa avremmo potuto fare in modo diverso».

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