Letta si è appropriato della Rai! Dopo Damilano trova posto e ingaggio anche per Caro figlio, il gran visir dei leccapiedi PD

GIORGIO GANDOLA per la Verità

« Nella mia Rai i partiti non bussano più». A modo suo Carlo Fuortes ha ragione.

Trincerato a viale Mazzini come Davy Crockett a Fort Alamo, l’amministratore delegato rifiuta le chiamate di tutti i partiti tranne quelle del Pd.

Per fare prima ha scelto i suoi punti di riferimento: Enrico Letta, Dario Nardella (rapporto personale) e Dario Franceschini. La poltrona per Marco Damilano arriva da quella sponda, con intervento supplementare di Romano Prodi. L’ex direttore dell’Espresso ha colto la palla al balzo sfruttando con perizia il desiderio del Nazareno di piazzare giornalisti graditi in ogni angolo del palinsesto in vista di una stagione decisiva. Macché guerra d’Ucraina o recrudescenze virali, arrivano le elezioni: a giugno le amministrative più referendum sulla giustizia e nel 2023 le politiche. Meglio dislocare le batterie anticarro.

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Mentre dopo quasi un anno il responsabile Rai per la Lega, Alessandro Morelli, non ha ancora ottenuto un appuntamento (lui e i rappresentanti degli altri partiti devono rivolgersi ad Antonio Funiciello, capo di gabinetto di palazzo Chigi) Fuortes ha porte aperte e spiccate attitudini da signorsì per il mondo dem. Ha tenuto duro su Damilano nonostante i malumori interni (è l’ennesimo esterno sotto contratto pur con 1.700 giornalisti in casa), il no del centrodestra («troppo schierato») e il parere negativo perfino dell’Usigrai.

Non ha obiettato neppure davanti a un palese errore editoriale: la striscia su Rai 3 andrà a confliggere con il Tg2. L’ad si nega con tutti ma con molto piacere ha accolto anche Gianrico Carofiglio – ex senatore del Pd ed ex magistrato, inventato politicamente da Walter Veltroni e oggi punto di riferimento delle «Agorà democratiche» di Letta – come conduttore del talk Dilemmi, sei puntate il lunedì in seconda serata su Rai 3 a partire dal 2 maggio. Opinioni contrapposte (staremo a vedere) con il giochino dell’orologio degli scacchi per fermare il tempo ai parolai.

Il riassetto serve anche a salvaguardare la narrazione radical-progressista e il pensiero unico governativo. A differenza dell’invasione di Vladimir Putin, questa è dolce, non aggressiva e passa dalla porta di Rai 3, la rete più in difficoltà. Telekabul va male, il Tg ha perso fino al 9% nell’edizione delle 19 e due settimane fa il comitato di redazione ha vergato un comunicato durissimo contro la direzione di Simona Sala, arrivata a novembre in quota piddo-grillina, con critiche sulla gestione degli inviati a Kiev, sull’utilizzo intensivo dei freelance e sull’organizzazione redazionale. In questo scenario, il direttore di rete Franco Di Mare è impegnato in una guerra di posizione con Bianca Berlinguer. E sarà così fino a giugno quando le rubriche passeranno agli Approfondimenti, sotto l’ombrello ecumenico di Mario Orfeo.

Dopo avere silurato Mauro Corona, ora Di Mare vorrebbe che la figlia di Enrico Berlinguer rinunciasse al pluralismo nel suo talk Cartabianca a favore di un’omologazione del pensiero, di un appiattimento culturale sulle tesi di un improbabile Letta con lo Stetson da John Wayne. Così, prima il sociologo della Luiss Alessandro Orsini non si paga, poi non si invita proprio per evitare che dica banalità del tipo: «Un bambino è più felice sotto la dittatura che sotto le bombe». Uscito barcollante da due anni di pandemia, il giornalismo in Rai ha la pelle sottile e non ammette diversità di opinioni oltre lo storytelling draghiano, il rosso e il rosè renziano. Pura autocrazia televisiva.

A Saxa Rubra c’è un fastidio evidente nei confronti di chi non è allineato. A tal punto da indurre la commissione di Vigilanza a proporre nuove regole per scoraggiare «l’effetto pollaio» e «uscire dal format delle tifoserie» come suggerisce il presidente Alberto Barachini (Forza Italia). L’obiettivo è perfino nobile, ma in questi casi vale l’emendamento Nicola Porro: «Chi dice che i talk vanno ripensati lo fa solo per far fuori i conduttori che non gli piacciono». I cinque precetti del buon approfondimento sembrano diktat; solo chi è sopraffatto dalla sindrome Picierno (se non la pensi come me devi stare zitto) non lo vede. Li presentiamo con doveroso contrappunto. 1 Ospitare persone di comprovata competenza (chi lo decide se non il conduttore?). 2 Garantire la rotazione delle presenze per favorire la pluralità delle voci (ma tanti ospiti con la stessa idea formano un coretto conformista). 3 Privilegiare le ospitate a titolo gratuito (poi agli amici si fanno contratti come autori). 4 Evitare la rappresentazione teatrale degli opposti e delle contraddizioni (senza opposti il rischio di omologazione è assicurato. 5

Garantire la veridicità delle notizie e delle fonti (ormai sono fake news quelle che non piacciono al Palazzo). L’impressione è che, adottando simili parametri, si finisca direttamente dentro il magico mondo di Fabio Fazio, dove il pensiero unico è un giardino fiorito percorso da ospiti anestetizzati dall’incenso cattodem. La direttorissima Monica Maggioni voluta da Mario Draghi e con solidi agganci al Quirinale non poteva rimanere estranea al ricambio tattico delle poltrone: anche al Tg1 è partito lo «scaravoltone», termine che a lei piace in modo particolare.

Dalla redazione tematica degli Speciali (che confeziona Tv Sette, Speciale Tg1) sono scomparse la vicedirettrice Maria Luisa Busi e la caporedattrice Alessandra Mancuso, in malattia o aspettativa dopo divergenze con il vertice. Ma a fare le spese dell’operazione Epuration è stato soprattutto lo storico vicedirettore Filippo Gaudenzi, figura istituzionale riconosciuta anche all’esterno, da 15 anni motore della complessa macchina redazionale. Non gli è stato rinnovato l’incarico, accantonato come un vecchio soprammobile. Ha un unico difetto, non indossa magliette politiche.

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